Un’ombra inquietante

10 Dicembre 2024
Francesco Olivieri

Lo shock della vittoria elettorale di Trump non è ancora sfumato, e sopravvengono ora le considerazioni pratiche del suo successo; restano intatte le ansietà che circondano questo sviluppo.
     Cosa accadrà? 
    Il Trump di oggi non è lo stesso che ha governato nel 2017. In questi sette anni è evoluto il paese, è cambiato il partito, e dei vecchi Repubblicani restano solo i discendenti, impegnati in una battaglia di retroguardia con le orde trumpiane. Il mondo anche è cambiato, e così sono cambiati gli avversari e dunque anche, in parte, i sostenitori; e si può continuare. 
        Ma è cambiato Trump?
    La migliore risposta che viene in mente è no; avrà cambiato vestito, ma non è cambiato dalle radici in su. È certamente ora un politico più “scafato” (come dicono i romani, che se ne intendono), e si rivolge ad un pubblico che lo ha scelto magari un po’ per il rotto della cuffia, ma che comunque lo ha scelto per la seconda volta: non si può più etichettare come un caso. L’ingenuità non è più ammissibile né da parte del prossimo Presidente, né da parte dei suoi concittadini, di qualunque tonalità politica essi siano; e allora nemmeno da chi vive un oceano più in là…
    Le radici del nuovo leader del primo tra i più potenti paesi del mondo non sono cambiate; ma sarebbe da aspettarsi ormai da parte del pubblico una gestione meno timida del suo bagaglio ideologico, ora che scatta il secondo -e costituzionalmente ultimo- mandato alla Casa Bianca…. Anzi, forse occorre proprio partire da questa ultima constatazione. In America gli eletti non si fanno scudo con l’aspettativa che governeranno per realizzare il programma del partito; è piuttosto il partito che li fa eleggere per fruire della realizzazione del programma concordato coi candidati. Così un programma complesso e abbastanza radicale proposto da uno di essi impegnerà tempo ed energie. E qui diventa difficile inserire un richiamo alla prudenza, che però non si può ricacciare completamente dalla mente. 
    Esiste infatti una silenziosa ma esplosiva condizione: non si presenterà magari per il nuovo Presidente la tentazione di un piccolo ritocco costituzionale, che potrebbe essere alla portata del nuovo governo ….e sarebbe una bomba.  Sarà tentato di manipolare l'attuale limite massimo costituzionale di due mandati presidenziali, che tutti pensiamo inamovibile? 
    C’è infatti un tarlo, che sopravvive a tutte le elucubrazioni: dopo tutto, questo limite non appariva nel testo originale della Costituzione degli USA. Si tratta infatti solo di un emendamento che risale al dopoguerra, quando Roosevelt fu rieletto -caso unico nella storia- per l’ultimo dei due ulteriori mandati oltre i due cui si erano accontentati i suoi predecessori. Questa limitazione è entrata in vigore solo nel 1951, con un emendamento costituzionale, una procedura complessa e prolungata, conclusa con la necessaria ratifica di tre quarti degli Stati.
    Nel caso, per infrangere questo limite ora occorrerebbe dunque la ratifica di 37 Stati. Troppi? Dato che Trump ne ha vinti una buona trentina in questa recente tornata elettorale, sono certamente molti, ma non è impossibile immaginare un attacco al 27mo. emendamento. Non vedo Trump, che si è già preparato un supporto conservatore nei supremi organi giudiziari della nazione, accettare di essere da meno di Roosevelt anche se fosse per un minuto; e sarebbe una vistosa contraddizione del suo progetto di governare la nazione completando il disegno di riscriverne la natura, il carattere, e la tradizione politica. 
    Se questo è davvero il piano, il limite dei due mandati gli potrebbe stare stretto, cioè solo altri quattro anni per rifondare il governo degli Stati Uniti dopo l’imminente quadriennio ora alle porte- e poi basta. 
    Per ora, gli incubi della parte progressista dell’America si concentrano su scadenze più vicine, e molto concrete. Colpa di un volume di non facile lettura, ma indubbiamente avvincente: sotto il titolo “Project 2025” la “Heritage Foundation” riunisce in un fascio (descrizione spontanea e non prefabbricata) il piano minuzioso e riflettuto di tutto ciò che l’intellighenzia conservatrice del paese assegna come agenda per il primo anno di questo mandato di Trump. Una lettura non facile né gradevole per chi non sottoscrive a questa corrente, ma resta un esercizio professionale, titanico e strutturato, e distribuito nel tempo corrispondente al primo anno di Trump…
    Non è solo un elenco di politiche e di misure, ma -forte della scienza di questo think-tank conservatore- il volume presenta una mappa completa e credibile per l’attività del primo anno di governo, senza pietà per l’amministrazione civile della nazione, e comprende una agenda politica consona con i desideri di una destra severa e senza compromessi. Il volume parte dalla liquidazione del personale governativo considerato indesiderabile per il suo orientamento, e delle stesse amministrazioni che rispondano alla stessa critica. Ma cambiare l’intero apparato governativo di un paese come questo, e assicurare al tempo stesso la permanenza della riforma imposta dal governo del momento non è cosa di poco tempo: è dubbio che basti l’installazione del sistema, occorre anche che prenda piede stabilmente, così che il ritorno alla tradizione non sia solo difficile, ma definitivamente impraticabile.
    Dunque un cambiamento politico generazionale. Il piano della Heritage Foundation implica un insieme esteso e capillare di progetti e di precetti, ed è evidente che reclami una mutazione completa dello Stato americano, che presuppone la conversione della stessa cittadinanza. 
    Non ci si deve dunque aspettare che sopravvivano i cliché come quello dell’americano benevolo e magari talvolta maldestro, ma bene intenzionato. Certamente, per chi ha l’età necessaria in Europa (e nel nostro Paese in particolare) si percepiscono richiami -certo involontari- alle esaltazioni cui siamo stati sottoposti negli anni del Fascio, sulla eccezionalità della nostra società e di noi stessi nella nostra tradizione, insomma una sbornia dalla quale ci siamo svegliati solo dopo varie guerre, di cui una mondiale e conclusiva, in cui primeggiavano (dalla parte dei giusti) proprio quegli stessi americani che ora sembrano essere dubbiosi, ma rimangono ricettivi fin da quei tempi dell’immagine mitica di se’, fortunatamente compensata tuttavia dalla storia sostanzialmente democratica del paese. 
    Ma eccoli ora stranamente affascinati dalla impensabile necessità di rassicurarsi.  In un mondo di illusioni di grandezza e contemporaneamente di timori di frustrazione, il parallelismo Trump-Duce è una tentazione troppo ovvia per scriverne ancora, ma non smette nondimeno di proiettare ancora ombre inquietanti.