Non solo Nagorno-Karabakh - Articolo di Laura Mirachian
“La guerra dei trent’anni”.
Era solo un’avvisaglia quella del 12 luglio. Ma ne avevamo intuito tutto il potenziale di ripresa degli scontri che si erano tradotti nelle sanguinose giornate del 2016 e negli episodi successivi di frizione. Ci eravamo anche chiesti perché, proprio ora che il giovane Primo Ministro armeno Pashinyan, giunto al potere nel 2018 dopo una pacifica ‘rivoluzione di velluto’, trai primissimi gesti del suo mandato aveva attivato un incontro con la controparte azera, e una linea telefonica diretta per prevenire ‘incidenti’. Perché proprio ora, che l’Armenia ha trovato un interprete sincero di una società che si vuole liberale, aperta, proiettata al futuro. Perché? Le circostanze internazionali e macro-regionali sono cambiate. Concorrono la campagna elettorale e il sostanziale disimpegno di Washington dal Mediterraneo, l’assertività e la retorica di Ankara che immagina di trarne vantaggio, la ‘distrazione’ della Russia alle prese con Bielorussia e problemi interni politici e economici, e più in generale la depressione economica indotta dalla pandemia che investe un po’ tutti in area e più oltre.
Per gli scontri in corso in questi giorni lungo la frontiera armeno-azera, si è parlato di gasdotti che transitano in zona, di linee ferroviarie e di autostrade, c’è chi ha riesumato l’idea di un conflitto di religione, e chi ha sbrigativamente evocato ‘la guerra dei trent’anni’, evidentemente partendo dagli scontri del 1991-1994. La questione del N-K (Artsakh in armeno) è più complessa e antica. Nulla a che fare con la religione. Il N-K è la culla dell’identità armena (ricorda qualcosa?). E se il suo destino fu deciso agli albori dell’URSS (Stalin 1921), nello spregiudicato collage ritagliato tra popoli e culture che ne garantiva brutalmente l’ordine costituito, e poi di nuovo al momento del collasso sovietico negli anni ’90, per gli armeni il suo futuro di libertà e rispetto dell’identità socio-culturale è imprescindibile. La questione si intreccia con le memorie del genocidio del 1915-1922 al tramonto dell’Impero Ottomano, mai riconosciuto dalla Turchia moderna: ‘questi rischiano di fare la stessa fine!’ è il retro-pensiero armeno. Trattasi di resistenza contro assimilazione e sopraffazione, in nome di diritti umani e sopravvivenza. Per questo, per proteggere la minoranza armena da un paventato massacro questa volta su scala azera, Yerevan continua ad occupare 7 distretti azeri a ridosso della regione contesa dal momento del cessate-il-fuoco del 1994 mediato da Mosca a Biskek.
I tentativi di mediazione.
Questo conflitto non ha solo trent’anni. Senza voler risalire nei secoli, negli anni sovietici Mosca interviene ripetutamente a separare i contendenti. Difendendo costantemente due principi, integrità territoriale dell’Azerbaigian e larga autonomia della regione a tutela della specificità armena. Fin dal 1923, accorda al Nagorno Kharabach lo status di ‘oblast’ autonomo. Poi, in concomitanza con l’indebolimento dell’URSS e la ripresa degli scontri, Mosca (Gorbaciov) conferma l’intangibilità dei confini armeno-azeri, ma impone a Baku scuole e stampa in lingua armena. Nel 1989 assume il controllo diretto del territorio a difesa degli armeni, giungendo ad occupare militarmente Baku, ma qualche mese dopo costringe al ritiro le forze armene che avevano attaccato alcuni villaggi di confine. Quando nell’estate 1991 il Nagorno-Karabakh vota la secessione dall’Azerbaigian resosi ormai indipendente, di nuovo Mosca tenta una mediazione, senza riuscire a fermare i contendenti. Inizia così la guerra del 1991-94, con il bombardamento azero della regione, cui Yerevan reagisce intervenendo con le sue Forze Armate. L’Armenia vince la partita militare a fronte della debolezza azera dell’epoca, ma il problema rimane irrisolto. Dal 1993 Ankara ha chiuso le frontiere con Yerevan.
Una risoluzione del CdS nel 1993 chiama in causa la CSCE (poi OSCE) quale organizzazione regionale di riferimento. Seguono negli anni oltre 30 riunioni, dapprima con la Presidenza dell’italiano Mario Raffaelli, poi con una triade di co-presidenti, USA-Russia-Francia: un formato solo teoricamente ideale, che peraltro Ankara ritiene sbilanciato a favore di Yerevan rivendicando una partecipazione diretta al posto della Francia, per poi tentare, senza successo, un tavolo alternativo. Ad oggi, nulla di fatto. Se non la reiterazione dei principi ‘classici’ di una pacificazione, ritiro armeno dai territori azeri, smilitarizzazione del N-K e referendum sui diritti, rientro dei rifugiati, forza internazionale di peacekeeping, periodo transitorio. Poiché l’Azerbaigian rifiuta il referendum e rivendica indiscussa sovranità sul territorio senza curarsi dei diritti della minoranza armena, l’Armenia rifiuta il ritiro. Qualche ritocco allo schema viene tentato al G8 di L’Aquila nel 2009 (un corridoio di collegamento tra Nagorno-Kharabach e Armenia presidiato da forze internazionali), senza seguiti. Da notare che la Turchia del primo Erdogan (“zero problems with neighbourhood”) lancia un’iniziativa per ‘un quadro di sicurezza regionale’ con la partecipazione di Mosca, che avrebbe potuto assorbire il contenzioso, ma viene ostacolata da Baku, che teme una normalizzazione dei rapporti Turchia-Armenia senza modifica dello statu quo risultante dal cessate-il-fuoco del 1994.
Decenni travagliati, dunque, in cui l’Armenia si affida sempre più alla Russia, arrivando a rinunciare ad un Accordo di Associazione con l’Europa in favore dell’Unione Doganale Euro-Asiatica, ma sempre ricercando un bilanciamento con l’Occidente, anche in ragione della nutrita presenza di una diaspora ivi perfettamente integrata e, non ultimo, dei forti legami della Chiesa Apostolica Armena con la Chiesa di Roma. Europa e NATO ricambiano, da un lato includendo il Caucaso nella Politica Europea di Vicinato (2009) e dall’altro istaurando una Partnership for Peace (fin dal 1994). Ma lo stretto rapporto con Mosca è per Yerevan al contempo una ‘garanzia’ e un costo in termini di scelte geopolitiche.
“NATO should seek to rein in Turkey...” (The Times, 29.09.20)
Ora il fattore Turchia entra prepotentemente in campo, inaugurando una nuova e più pericolosa fase del conflitto. Baku non si sarebbe lanciata in un attacco frontale, senza scontare l’appoggio politico e militare di Ankara. Le rivendicazioni di Baku nel piccolo lembo di Caucaso rientrano nella visione turca del recupero di influenza nella vasta area dell’ex-Impero Ottomano. Che notoriamente si è già tradotta nell’occupazione di buona parte del nord della Siria a seguito di ben tre offensive militari, nell’intervento militare in Libia a fianco di Serraj, e nel tormentato confronto in atto nel Mediterraneo Orientale per l’esplorazione di giacimenti petroliferi, che sottende la contestazione della sovranità delle isole greche e la rivendicazione della sovranità di Cipro del Nord occupato dal 1974. Il rischio di collisione navale tra Grecia e Turchia, due paesi NATO, è reale. Di fatto, Ankara sta immaginando di rimettere in discussione gli Accordi di Losanna del 1923, che hanno riconosciuto a Kemal Ataturk i confini terrestri dell’Anatolia (a spese di Curdi e Armeni), ma non la revisione di quelli marittimi. A fronte del richiamo a un immediato cessate-il-fuoco e alla ripresa dei negoziati che provengono dall’OSCE, dalle Nazioni Unite, dall’Europa, dalla Santa Sede, dagli Stati Uniti, e dalla stessa Russia, e persino dall’Iran che si è detto disponibile a una mediazione, la Turchia ufficiale accentua i toni bellicosi traducendoli in un massiccio aiuto militare a fianco dell’Azerbaigian, ivi incluso con mercenari jihadisti dalla Siria. Parallelamente si mobilita la Russia, che ha in Armenia due basi, terrestre e aerea, a Gyumri (oltre 5.000 addetti) e all’aeroporto di Erebun (caccia, apparati missilistici etc).
Mentre l’Armenia, allarmata, invoca cessate-il-fuoco e ripresa dei negoziati OSCE, e l’Azerbaigian li rifiuta, la Comunità Internazionale si interroga su come fermare il conflitto. L’Europa richiama l’OSCE come quadro negoziale di riferimento, ancorché con posizioni anti-turche più ferme da parte degli Stati Membri direttamente interessati, nonché della Francia che interviene unilateralmente al loro fianco nei mari. L’iperattivismo militare di Macron contrasta con l’impegno di mediazione tra Grecia e Turchia della Merkel, forse, ma non solo, in nome del contenimento dei rifugiati i sensi dell’intesa del marzo 2016. Voci emergono anche in favore di una (improbabile) iniziativa NATO, per frenare un alleato che “minaccia la sicurezza regionale”. Un alleato alquanto spregiudicato, che non esita a procurarsi missili S-400 dalla Russia e a sfidare gli stessi americani in Siria, oltre che gli Europei in Libia e nel Mediterraneo.
Una pace non impossibile in N-K
In realtà tutti sperano nella ‘provvidenza’, e cioè nella Russia, che negli anni ha bilanciato la sua presenza in area, rafforzando le sue postazioni militari in Armenia e fornendo al contempo all’Azerbaigian armamenti strategici. Russia e Turchia sono antagonisti storici e il Caucaso è uno dei punti sensibili. Ma a Mosca non mancano i leverages, a partire dalla dipendenza turca dagli approvvigionamenti energetici russi (Blue Stream, Turkish Stream..). Non a caso, è riuscita a reperire i termini di un’intesa nel ginepraio siriano, e anche nello scenario libico altrettanto problematico. “Non stiamo parlando di opzioni militari”, ha dichiarato il portavoce Peskov, lasciando intendere che Mosca, già impegnata in numerosi scacchieri esterni, da ultimo nella vicenda Bielorussia, oltre che nei problemi interni politici ed economici, farà di tutto per evitare di imbarcarsi in uno scontro armato. Piuttosto, anche in veste di co-Presidenza OSCE, cercherà di ripercorrere con l’appoggio dell’Europa le fila di un difficile negoziato, per giungere a una tregua e magari inaugurare un ‘processo’, vigilato da forze internazionali, e basato sui parametri dell’OSCE, pur senza escluderne un eventuale superamento. L’Italia può contribuire utilmente a un processo politico che si rimettesse in moto, quale paese che ha saputo attuare l’esperienza dell’Alto Adige universalmente considerato il modello più avanzato di autonomia. Una soluzione negoziata che non comprometta gli interessi di Ankara sarebbe accettabile anche dagli Stati Uniti, che considerano la Turchia un utile contrappeso alla Russia nella scacchiere mediterraneo-caucasico. Se così fosse, l’offensiva azera del 27 settembre, si concluderebbe con una forte unanime pressione su Baku perché riconosca agli armeni del N-K i diritti che non ha accordato in questi decenni, e una forma di autogoverno. Non sarebbe l’agognata indipendenza, ma una garanzia di sopravvivenza culturale e sociale, cui dovrebbe seguire il ritiro armeno dai distretti azeri occupati.
E più oltre?
Ma al di là del Caucaso, ciò che Ankara considera ancora più importante è un coinvolgimento diretto nella partita degli idrocarburi nel Mediterraneo Orientale, ove gli Europei sono direttamente coinvolti. Ankara è chiaramente demandeur di essere riconosciuta come partner. A questo sono riconducibili le provocazioni turche, a partire dall’intesa con il GNA libico per una ZEE che interseca le piattaforme greche e cipriote. Per Ankara, che è affamata di energia e che solo pochi anni addietro puntava ad essere il collettore (hub) verso l’Europa delle pipeline provenienti da Russia e Medio Oriente, l’esclusione dal Forum del Cairo che raggruppa i Paesi interessati all’esplorazione dei nuovi giacimenti (Grecia, Cipro, Italia, Francia, Israele, Egitto, Giordania, ANP) è un duro colpo. Se gli Europei si orientassero per associarla alla compagine, o addirittura immaginare forme di joint-venture - anche qui l’Italia potrebbe avere un ruolo - si sarebbero trasferiti i termini del contenzioso dalla dimensione politico-militare alla dimensione economica. In tal caso, andrebbe messo in chiaro che il coinvolgimento non ha nulla a che fare con un riconoscimento delle pretese turche sui confini marittimi. Un’ipotesi, questa, che avrebbe il merito di placare l’aggressività turca e avviare con Ankara un rapporto cooperativo, a valere su questo e altri scacchieri.