Bolivia, inizia il lavoro di ricostruzione del paese
Dopo un anno di governo “provvisorio” la Bolivia è uscita dal tunnel istituzionale, affidando al Movimento per il Socialismo – Strumento Politico per la Sovranità dei Popoli (MAS-IPSP, o più semplicemente MAS) il compito della ricostruzione democratica del paese. Annullate le elezioni dell’ottobre 2019, le nuove elezioni presidenziali e parlamentari del 18 ottobre 2020 costituiscono un punto di svolta storica in un paese da sempre profondamente diviso dal punto di vista sociale, etnico e di classe.
Attraverso un processo equo e trasparente - e come tale avallato da numerosi osservatori internazionali – si è chiusa la lunga parentesi del governo provvisorio nato all’indomani dell’annullamento delle elezioni del 2019. Lasciando a un’analisi storico-politica non ancora convergente una valutazione sulla natura della crisi del 2019 (molti la considerano un colpo di Stato, altri contestano questa interpretazione alla luce di una serie di indicatori relativi al ruolo delle forze armate, alla continuità istituzionale, al mantenimento della dialettica politica destre-sinistra), il significato del voto appare comunque incontrovertibile: con il 55% dei voti (su oltre l’88% dei votanti) il MAS, partito dell’ex presidente Morales, ha conquistato di nuovo la presidenza della Repubblica con il suo candidato Luis Arce, oltre alla maggioranza dei seggi dell’Assemblea Nazionale; il partito centrista moderato Comunità Civica (Comunidad Ciudadana, CC) dell’ex presidente Carlos Mesa si è fermato al 29% mentre la destra estrema è rimasta all’angolo, con un 14% a livello nazionale, in larga parte espressione della media e alta borghesia del dipartimento di Santa Cruz.
Dal punto di vista della democrazia formale, queste elezioni organizzate e garantite da un Tribunale Elettorale realmente indipendente sia dalle forze politiche in lizza sia dal governo provvisorio possono costituire un modello per molti paesi dell’America Latina. La supervisione del processo elettorale da parte di organismi internazionali (fra cui l’Organizzazione degli Stati Americani OSA e l’Unione Europea) e di osservatori nazionali indipendenti ha sancito la correttezza e trasparenza del processo elettorale, a differenza di quanto avvenuto nelle elezioni del 2019 quando la valutazione negativa espressa dalla OSA aveva portato all’annullamento delle elezioni cui fecero seguito forti tensioni nel paese, il ritiro della fiducia a Morales da parte delle Forze Armate e della polizia, la partenza di Morales e l’insediamento di un governo transitorio dominato dalle forze più radicali dell’opposizione di destra. E dopo un anno difficilissimo tra polarizzazione politica e sociale, crisi economica, irruzione della pandemia con conseguente incapacità del governo transitorio di gestire la situazione, il MAS di Morales è tornato legittimamente al governo del paese, senza Morales (ancora in Argentina, mentre scriviamo).
Oltre che dall’Organizzazione degli Stati Americani e dall’Unione Europea, il limpido successo del MAS è stato riconosciuto da tutta la comunità internazionale (compresi gli Stati Uniti, la Russia, la Cina e tutti i paesi latinoamericani, dal Venezuela di Maduro sino al Brasile di Bolsonaro) da cui sono giunti messaggi di congratulazioni e impegni ad approfondire le relazioni politiche ed economiche.
Una nota di Josep Borrell, Alto Rappresentante della Ue per gli Affari Esteri e la Sicurezza sottolinea che l'Unione "continua a fianco della Bolivia e spera di poter lavorare con le nuove autorità per il consolidamento della prosperità e della stabilità del paese, con spirito di riconciliazione, unità e inclusione".
Mentre il risultato elettorale costringe anche i governi più ostili verso l’orientamento e le alleanze internazionali di Morales – e che avevano salutato con entusiasmo la crisi del 2019 come gli Stati Uniti e il vicino Brasile – a fare oggi i conti con una nuova amministrazione boliviana pienamente legittimata e forte di un incontestabile consenso popolare. A loro volta i paesi del blocco politico-economico dell’ALBA (in primo luogo Cuba e Venezuela, cui si aggiunge il Nicaragua e una serie di piccoli Stati caraibici) hanno salutato la vittoria del MAS come espressione del “rifiuto popolare verso il golpe contro Morales”. Tuttavia sarebbe opportuno che le forze politiche che governano i paesi dell’ALBA riflettessero sulla forza istituzionale, sulla credibilità e sull’autorevolezza che deriva ad Arce e al MAS dall’essere risultati vincitori di un processo elettorale guidato da organi nazionali pienamente indipendenti, senza confusione fra risorse statali e risorse a disposizione delle forze politiche, con un accesso equo ai mezzi di informazione e con il pieno rispetto delle garanzie costituzionali.
Alcuni commentatori sostengono che il risultato elettorale del 2020 smentirebbe la presenza di brogli nelle elezioni del 2019; come ricordato, era stata proprio la certificazione di numerose irregolarità da parte della OSA aveva portato all’annullamento delle elezioni: secondo questa interpretazione, avendo il MAS vinto di nuovo al primo turno senza necessità di ballottaggio, sarebbe dimostrata la legittimità della vittoria elettorale nell’anno precedente. In realtà questa interpretazione lascia il tempo che trova. Nel 2019 il Tribunale Elettorale – che molti ritenevano condizionato dalle pressioni governative - dichiarò vincitore Morales al primo turno con il 47% dei voti e pochi decimali di differenza rispetto al secondo arrivato, decimali che gli avrebbero permesso di evitare il secondo turno. Ora il candidato del MAS Arce ha vinto con il 55%, un aumento dell’8% rispetto al voto “ufficiale” dell’anno scorso. Prendendo per buoni i risultati ufficiali del 2019, si rileva comunque un forte rimescolamento nell’elettorato, con spostamento massiccio verso Arce di voti che prima sostenevano l’opposizione moderata di Mesa (passata dal 37% al 29%). E un riposizionamento così forte di una parte rilevante degli elettori non permette di ricavare alcuna conclusione ex post riguardo alla correttezza del precedente scrutinio.
Lo svolgimento del processo elettorale nel suo complesso (iscrizione delle candidature, pluralismo nella campagna elettorale, espressione del voto, conteggio e proclamazione dei risultati, accoglienza dei risultati dalla società boliviana, consenso internazionale sulla regolarità delle operazioni) sembra archiviare una volta per tutte le tentazioni autoritarie presenti in settori di entrambi gli schieramenti.
In primo luogo termina l’esperienza di un governo ad interim egemonizzato dalle forze revansciste della destra boliviana. Nella vicenda delle elezioni presidenziali e parlamentari dell’ottobre 2019 si è condensata tutta la fragilità del sistema politico-istituzionale del paese andino. Fattore detonante era stata l’arroganza della quarta candidatura di Evo Morales alla presidenza della Repubblica, dopo una sentenza della Corte costituzionale che annullava gli effetti del referendum che nel 2016 in cui la maggioranza dei boliviani aveva votato contro la possibilità di rielezione consecutiva. La campagna elettorale e soprattutto lo scrutinio dei voti nelle elezioni del 2019 aveva portato all’individuazione di molte irregolarità da parte di osservatori internazionali e locali e soprattutto alla scarsa credibilità del risultato finale. Dopo le dimissioni e la partenza di Evo Morales si aprirono ore concitate e confuse per la nomina del presidente ad interim, con la consecutiva rinuncia di tutti coloro che sulla base della Costituzione avrebbero dovuto subentrare (tutti costoro erano membri dello stesso partito di Morales). Si arrivò così alla discussa nomina a presidente della senatrice di opposizione Jeanine Áñez con un voto parlamentare reso minoritario dall’assenza di tutti i parlamentari del MAS. Nel paese si moltiplicarono gli scontri fra sostenitori di Morales, oppositori, polizia ed esercito con decine di morti, assalti alle sede di partiti e istituzioni, distruzione di beni pubblici e privati, assedio alle abitazioni di dirigenti ed esponenti politici (fra questi la sorella di Morales), sino ai massacri di Senkata e Sacaba (22 morti e 198 feriti), per i quali il parlamento uscente (in cui sono rientrati i rappresentanti del MAS, che costituiscono la maggioranza) ha individuato, sulla base delle risultanze della Commissione parlamentare e dei rapporti internazionali, una responsabilità diretta della presidente Áñez e del suo governo, che avevano lasciato “mano libera” a militari e polizia nella repressione delle contestazioni. Anche la componente più radicale della destra, guidata da Luis Camacho, leader della borghesia agraria di Santa Cruz, deve oggi accettare il gioco democratico che le lascia un ruolo secondario nell’opposizione, dove ha invece prevalso l’ala liberale e moderata rappresentata dalla Comunità Civica di Mesa. Il MAS, a sua volta, è chiamato a superare il personalismo e il settarismo di molti suoi dirigenti (cominciando da Morales) per aprirsi a una società di cui proprio il MAS ha esaltato la pluralità e complessità nel momento in cui ha promosso la nuova denominazione ufficiale del paese come Stato Plurinazionale.
Dal punto di vista della pacificazione del paese, appare necessario rafforzare il carattere laico, pluralista e democratico della società boliviana. Una delle più inquietanti manifestazioni dell’estrema polarizzazione politica – che può essere letta come contraddizione città-campagne, o meglio ancora lungo la frattura sociale ed etnica che contrappone il ceto medio e la borghesia che si riconosce come “bianca” all’altra metà del paese delle popolazioni indigene, delle masse contadine, dei coltivatori di coca – è quella che assume le fattezze di uno pseudo-scontro religioso fra cristianesimo (nelle sue diverse confessioni) e misticismo ancestrale. Anziché promuovere una visione aperta della società, nei due campi vi è stata una sorta di gara nello sfruttamento della religione a fini politici. Come simbolo della riappropriazione del paese da parte delle popolazioni ·originarie”, Morales aveva favorito la realizzazione di rituali ancestrali legati al mito della “pachamama” all’interno delle istituzioni pubbliche, fra cui lo stesso parlamento, provocando reazioni da parte dei settori fondamentalisti della destra boliviana: da segnalare in particolare il giuramento come presidente della senatrice Añez con un’enorme Bibbia sotto il braccio, accompagnato dall’affermazione secondo cui “ora la Bibbia torna nel parlamento da cui Morales l’aveva espulsa”. L’utilizzo della religione come strumento di consenso elettorale è del resto molto diffuso in America Latina, indipendentemente dal colore politico del partito al potere: basti guardare a Bolsonaro in Brasile o a Ortega e Murillo in Nicaragua.
Su un punto gran parte degli osservatori – siano essi di area progressista o conservatrice – convergono: si è votato su grandi opzioni socio-culturali, più che sui programmi. Chi ha votato per il MAS lo ha fatto temendo il ritorno all’instabilità economica e a una società fortemente classista ed escludente; il voto per le diverse forze di opposizione è stato alimentato soprattutto dalla paura di un ritorno dell’autoritarismo e dell’egocentrismo di Evo Morales. Ma ha senz’altro pesato anche l’esperienza fallimentare della presidenza Añez, segnata da numerosi episodi di corruzione, nepotismo, litigiosità, incapacità nel gestire l’epidemia Covid-19 e tentativi di smantellamento dello Stato sociale con scelte economie che aggravavano la frattura con il mondo contadino e indigeno confermando e approfondendo linee di contrapposizione (in merito alla deforestazione, allo sfruttamento delle risorse naturali e all’apertura agli OGM) che avevano già provocato conflitti fra Morales e settori che lo avevano inizialmente sostenuto.
Nei primi giorni dopo il voto, Arce ha alternato dichiarazioni di continuità rispetto alla gestione Morales con affermazioni di forte autonomia (“se Morales vuole aiutarci sarà il benvenuto, ma ciò non vuol dire che sarà nel governo”). Lo stesso Morales ha escluso una propria partecipazione nell’esecutivo. Pur essendo esponente di lungo corso del Movimento per il Socialismo, il nuovo presidente non ha alle spalle un passato “combattente”: non viene dalla componente più autenticamente indigena, la quale si sente oggi rappresentata soprattutto dal vice-presidente David Choquehuanca (importanti settori indigeni e contadini del MAS lo avrebbero preferito come candidato presidenziale rispetto ad Arce, sostenuto e infine imposto da Morales) né viene dalla storia intellettuale e militante della sinistra rivoluzionaria boliviana come l’ex vice-presidente García Linera, né dal sindacalismo rurale e cocalero come lo stesso Evo Morales. È un tecnico con una lunga esperienza nel sistema finanziario e ministro dell’economia dal 2006 sino al 2019 (salvo circa due anni di allontanamento per gravi ragioni di salute). Arce è riuscito a raccogliere intorno a sé l’elettorato storico del MAS, ampliandolo a nuovi settori della società boliviana. Vi sono opinioni contrastanti anche sul peso della figura del candidato del MAS nella vittoria elettorale. Vi è chi ritiene si tratti di una pura e semplice vittoria di Morales per interposta persona, senza che si possa attribuire alcun merito specifico ad Arce. Secondo altri l’aumento di voti per il MAS si spiega in buona parte proprio con il profilo tecnico-politico di Arce, che ha guidato il Ministero dell’Economia dal 2004 con risultati molto positivi sia sul piano economico sia per la ricaduta sociale della nazionalizzazione dei settori-chiave degli idrocarburi e delle telecomunicazioni: all’aumento annuo del PIL di circa il 4,9% si è accompagnato un netto miglioramento di tutti gli indicatori sociali relativi a povertà, speranza di vita alla nascita, scolarizzazione, salute. Si tratterebbe insomma della capacità di attrazione di un MAS che molti sperano confermi la propria capacità di dinamizzare l’economia e la società, lasciando per strada l’autoritarismo, l’accentramento, il personalismo e il clientelismo dell’epoca Morales.
Quale che sia l’interpretazione del voto, quel che è certo è che oggi Arce si trova di fronte alcune sfide di enormi dimensioni. In primo luogo si tratta di invertire la crisi economica dell’ultimo anno, in gran parte dovuta alla pandemia di Covid-19 che ha aggravato le condizioni di vita in un paese in cui il 70% dei lavoratori opera nel settore informale. La crisi ha colpito anche le attività dei settori trainanti come l’industria estrattiva mentre si stanno esaurendo le riserve petrolifere. Si tratta quindi non solo di uscire dalla crisi del Covid-19 ma anche di ripensare un modello economico che sino ad ora si era basato sulle materie prime al punto da provocare conflitti fra il governo di Morales e popolazioni rurali e indigene – base storica del MAS – a causa di progetti di sfruttamento delle risorse naturali ad alto impatto ambientale (disboscamento e incendi in Amazzonia, piani di intervento nell’area di Uyuni per l’estrazione del litio). Nel breve periodo è necessario intervenire per mitigare l’impatto sociale della pandemia: i sussidi familiari e la sospensione del pagamento dei servizi domestici decretati dal governo Añez non hanno impedito che il commercio informale proseguisse nelle strade e nelle piazze del paese, unica forma di sopravvivenza per molte famiglie monogenitoriali (circa il 15% delle famiglie boliviane è guidato dalla sola madre, percentuale che aumenta nelle fasce a basso reddito). Ma occorre anche una strategia di fondo che porti a diversificare la base produttiva in modo che il paese non continui a dipendere esclusivamente da risorse naturali in rapida diminuzione. Molte speranze sono riposte su Arce, considerato l’artefice del successo economico della Bolivia
In campo economico è inoltre urgente ridurre un crescente deficit fiscale e affrontare il problema della parità del boliviano, la moneta nazionale che molti analisti ritengono sopravvalutata del 40%, che si accompagna alla progressiva riduzione delle riserve internazionali.
Vi è poi da costruire un quadro giuridico chiaro per gli investimenti esteri diretti. Al di là della retorica “nazionalizzatrice”, la ristrutturazione dell’economia boliviana negli anni di Morales ha avuto la capacità di attrarre decine di imprese straniere che oggi operano in Bolivia. Per quanto riguarda gli idrocarburi non si è trattato di vere e proprie nazionalizzazioni, ma dell’acquisto da parte dello Stato del 51% delle azioni operanti nel settore, oltre all’introduzione del monopolio statale nella commercializzazione del gas. Quel che frena molte aziende interessate a investire in Bolivia è piuttosto l’incertezza giuridica, che ha favorito gli affari delle imprese che hanno stabilito rapporti diretti, personali con Morales e il suo entourage e ha invece creato ostacoli d’ogni genere a chi non entra in questa sorta di “cerchio magico”.
Forte di un voto popolare che è riuscito a superare barriere di classe e confortato dal riconoscimento internazionale, Arce ha oggi la possibilità di rimettere in sesto un’economia aperta, avviare la ricucitura del tessuto sociale e completare la costruzione di uno Stato sociale ancora piuttosto fragile, come ha dimostrato la violenza con cui la pandemia si è abbattuta nel paese mettendo in luce la precarietà economica della maggioranza delle famiglie boliviane e la precarietà del sistema sanitario.
Scriviamo alla vigilia delle elezioni negli Stati Uniti, il cui risultato avrà impatto sull’intero sub-continente latinoamericano. Le conseguenze di quel voto sulla Bolivia saranno parte di un quadro regionale che meriterà un’analisi approfondita a tempo debito.