Il virus del populismo in Germania pare che non contagi i Verdi
Il sentimento anti-establishment, il fastidio nei confronti del pluralismo che si realizza nella rappresentanza e nel principio della delega politica, il desiderio dell’affermazione di una non meglio definita “volontà del popolo”: sono i tre criteri più semplici e più immediati per definire il populismo. Robert Vehrkamp e Wolfgang Merkel, due ricercatori della Fondazione Bertelsmann, li hanno utilizzati per realizzare il loro Populismus-Barometer, una ricerca sulla diffusione e sull’intensità del fenomeno in Germania.
La ricerca è stata condotta nel momento in cui in diverse elezioni regionali, soprattutto nei Länder orientali, si registravano preoccupanti exploits di Alternative für Deutschland, che hanno continuato a manifestarsi nei mesi successivi: attualmente AfD, per i risultati ottenuti nelle elezioni regionali che si sono tenute dal 2016 fino all’autunno scorso è, con percentuali che variano dal 20 al 27%, il secondo partito in tutti i Länder della Germania orientale, dietro alla CDU in Sassonia e Sassonia-Anhalt, dietro alla SPD nel Meclemburgo e nel Brandeburgo e dietro la Linke in Turingia. Appare quindi evidente una correlazione tra la crescita del populismo e i successi elettorali dell’estrema destra. Ma, come vedremo, gli esiti dello studio di Vehrkamp e Merkel mostrano che la questione non riguarda soltanto quell’area. Come avviene anche in altri paesi (a cominciare dal nostro) il populismo è un fenomeno che attraversa buona parte dello spettro politico.
I tre criteri indicati all’inizio ispirerebbero, secondo il Populismus-Barometer, l’orientamento di un buon 30 per cento degli elettori tedeschi. Si tratta di una minoranza, ancorché robusta, giacché il 33% resterebbe invece ancorato a un atteggiamento positivo nei confronti della politica e del rapporto con le istituzioni. Ma si tratta di una minoranza forte e, almeno nel momento in cui i dati vennero raccolti (fine 2017), con un trend in crescita.
La correlazione più forte tra atteggiamento populista e scelta elettorale si riscontra, com’era facile aspettarsi, tra i votanti e i simpatizzanti di Alternative für Deutschland. E però esiste una sensibile correlazione anche tra gli elettori dei partiti del centro moderato, la CDU e la CSU e, anche se meno, i liberali, e una forte correlazione tra gli elettori dell’estrema sinistra, la Linke. Sono poco populisti, invece, elettori e simpatizzanti della SPD, pur se lo sono comunque più dei dirigenti del partito, cui i militanti della base non perdonano la scelta di aver accettato il ritorno alla große Koalition in nome della stabilità politico-istituzionale. Scelta che apparve all’epoca fortemente contraria alla volontà del “popolo socialdemocratico”.
Il partito meno insidiato dal populismo, comunque, è quello dei Verdi. I quali sono gli unici a non subire danni in termini di consensi per lo scivolamento populista nell’opinione pubblica. Al contrario: come si è visto nelle elezioni regionali più recenti e come mostrano i sondaggi, i Grünen conquistano consensi presentandosi proprio come un argine contro quello scivolamento. Vengono percepiti infatti come un baluardo dei valori della democrazia rappresentativa contro le derive dello spirito pubblico verso il plebiscitarismo e le lusinghe della cosiddetta “antipolitica”. Appaiono insomma come i difensori di valori che saranno pure un po’ in crisi e meno saldi che in passato, ma che comunque sarebbero ancora convintamente condivisi da una maggioranza, ancorché abbastanza ristretta, degli elettori tedeschi. In quest’area i Verdi tendono a fare il pieno perché beneficiano della scontentezza di molti simpatizzanti del centro disgustati dalla deriva populista dei due partiti dell’Unione. Lo si è visto molto chiaramente con l’analisi dei flussi nelle elezioni in Baviera dell’ottobre 2018. Nella campagna per quella tornata elettorale la CSU aveva adottato argomenti e toni duri verso l’immigrazione per rincorrere su questo terreno AfD, ma proprio questo determinò un massiccio spostamento dei suoi elettori meno inclini all’estremismo e all’esasperazione dei toni verso i Grünen. Di qui la crescita elettorale dei Verdi, i quali hanno aggiunto questa messe di consensi a quelli che, per ragioni diverse e più attinenti alla crisi di programma e di credibilità dell’establishment socialdemocratico, strappavano alla SPD. Queste ragioni hanno fatto sì che In alcuni Länder i Verdi siano balzati davanti ai socialdemocratici e non si può escludere che il trend continui e si rafforzi facendo sì che il sorpasso avvenga anche a livello federale.
Non sfugge che ci troviamo di fronte a un paradosso politico. I Grünen arrivarono sulla scena pubblica della Germania federale, dopo la metà degli anni ’70, con le stimmate del movimento anti-istituzionale duro e puro, continuatore in qualche modo della Grande Rivolta del ’68. Tra le loro figure carismatiche c’erano protagonisti del ’68 tedesco come Rudi Dutschke e Daniel Cohn-Bendit. Quaranta e più anni dopo gli eredi del movimento sono individuati, invece, come i campioni del sistema parlamentare rappresentativo del quale raccolgono le bandiere lasciate cadere dagli altri partiti: appaiono i politici meno esposti alle lusinghe dell’antipolitica e di illusorie fughe in fantasiose pratiche di pretesa democrazia diretta.
La contraddizione è molto meno paradossale, però, se si considerano più attentamente le caratteristiche del clima politico-culturale in cui il movimento nacque e che, in qualche modo, continuano a riproporsi ancor oggi. I Verdi ebbero fin dall’inizio una notevole sintonia con quelle tendenze dell’intellettualità tedesca di cui era espressione il cosiddetto patriottismo della Costituzione (Verfassungspatriotismus) teorizzato dalla Scuola di Francoforte e in particolar modo da Jürgen Habermas. Si trattava di un sistema di valori che ruotava intorno all’idea che il fondamento della Nazione fosse non un indistinto e mitizzato “popolo” (con tutto il portato di negatività che in Germania è storicamente associato al concetto di Volk, non solo in relazione al nazismo), ma la comunità dei cittadini costruita sulla partecipazione e su un sistema di valori, di istituzioni e di pratiche politiche profondamente condivise. È su queste basi che i Verdi tedeschi hanno costruito nel tempo un rapporto con le istituzioni fatto sempre di partecipazione attiva alle prassi parlamentari e mai di rifiuto preconcetto e scontro frontale, sempre democratico e mai “eversivo”, anche quando assumeva forme e contenuti molto radicali.
L’ispirazione comunitaria, idealmente all’opposto del carattere “verticale” del populismo, si manifesta chiaramente nell’atteggiamento verso gli stranieri, sia per quanto attiene all’integrazione degli stranieri presenti in Germania sia per quanto riguarda l’accoglienza dei migranti. Il modello dei Grünen è la società multiculturale, coerentemente con la loro idea di comunità al fondamento della quale ci sono i “cittadini” e non il “popolo” e che rifiuta le suggestioni, piuttosto avvertite in Germania dello ius sanguinis.
Alla luce dei pregiudizi e delle paure che qui da noi insidiano la materia (anche tra i politici e anche tra i politici di sinistra) può sembrare temerario affermarlo, ma è fondata l’impressione che l’atteggiamento aperto sull’integrazione e soprattutto verso l’accoglienza agli immigrati sia una delle chiavi che spiegano i successi elettorali dei Verdi. È vero che questo può suonare strano nel momento in cui in tutta Europa si moltiplicano preoccupanti segnali di intolleranza e di chiusura, in diversi paesi si rimettono in discussione i modelli di integrazione e si diffondono, anche in Germania, fenomeni anche gravi e violenti di islamofobia. Ma si può ritenere che, in qualche modo, la ragionevolezza dei Verdi su questo tema funzioni presso la parte maggioritaria dell’opinione pubblica che non è sedotta dalle cattive sirene della xenofobia e del pensiero securitario. Un’opinione che diffida dell’opportunismo cinico dei partiti dell’Unione, specie dopo la pessima prova fornita dalla CSU all’inseguimento di AfD in Baviera, ma anche dell’assenza ideale dei socialdemocratici, i quali, pure su questo terreno, sembrano paralizzati da una desolante mancanza di iniziativa.
I Grünen, insomma, in mancanza di concorrenza tenderebbero a fare il pieno degli elettori animati da buoni sentimenti in materia di accoglienza, atteggiamenti di cui si ebbero evidenti e confortanti testimonianze quando la cancelliera Merkel decise coraggiosamente l’apertura delle frontiere ai profughi siriani. Il clima, da allora, è certamente cambiato in peggio, ma si può ragionevolmente pensare che esista ancora una larga porzione dell’opinione pubblica che rifiuta xenofobia e discriminazioni.
Questa impermeabilità, per così dire, al populismo pone i Verdi in una situazione sicuramente favorevole nel panorama politico-elettorale della Germania, nella quale tendono a diventare il più convincente polo di riferimento dell’area sensibile ai valori “costituzional-patriottici”. Una situazione tanto più favorevole nel momento in cui le consapevolezze del riscaldamento globale stanno facendo crescere nella coscienza pubblica la sensibilità per quelle che sono una sorta di ragione sociale, di imprinting di nascita del movimento: le tematiche ambientali. E in cui il riarmo nucleare in Europa potenziale (e in parte già in atto) susseguente all’abbandono del Trattato INF potrebbe riaprire nel prossimo futuro la stagione delle proteste pacifiste, altra antica ragione sociale del movimento.
Il “non-populismo” dei Verdi tedeschi è chiaramente percepibile infine nell’atteggiamento verso l’Unione europea. Nel periodo in cui sembrava che le opinioni pubbliche dei diversi paesi scivolassero inevitabilmente verso il sovranismo, il loro coerente europeismo è apparso anch’esso in controtendenza e in momenti significativi di passaggio è stato sostenuto con coraggio. Va ricordato, ad esempio, che uno dei due punti di principio su cui, dopo le elezioni federali del settembre 2017, fallì l’improbabile tentativo di coinvolgere i Verdi in un’ alleanza di governo con la CDU/CSU onde uscire dall’impasse creata dal rifiuto (iniziale) della SPD a tornare alla große Koalition, fu la loro difesa, contro le pretese dei liberali e di buona parte dei partiti democristiani, di quel minimo di principio di solidarietà finanziaria che è rappresentato nell’Unione dall’esistenza del cosiddetto fondo salva-stati e, all’epoca, dal quantitative easing praticato della Banca centrale. L’altro punto di principio, irrinunciabile, su cui i Verdi ruppero fu la richiesta di una politica fiscale indirizzata alla battaglia contro le diseguaglianze.
Insomma, il “non-populismo” dei Grünen tende a collocarli su un’area che dovrebbe essere quella naturale della sinistra e li porta ad affrontare battaglie che erano tradizionalmente, e dovrebbero essere, quelle dei partiti tradizionali: in Germania la SPD, altrove altri partiti socialisti e progressisti. Il rapporto evolverà verso la concorrenza o verso la collaborazione in una alleanza, almeno nel Parlamento europeo?
Il sentimento anti-establishment, il fastidio nei confronti del pluralismo che si realizza nella rappresentanza e nel principio della delega politica, il desiderio dell’affermazione di una non meglio definita “volontà del popolo”: sono i tre criteri più semplici e più immediati per definire il populismo. Robert Vehrkamp e Wolfgang Merkel, due ricercatori della Fondazione Bertelsmann, li hanno utilizzati per realizzare il loro Populismus-Barometer, una ricerca sulla diffusione e sull’intensità del fenomeno in Germania.
La ricerca è stata condotta nel momento in cui in diverse elezioni regionali, soprattutto nei Länder orientali, si registravano preoccupanti exploits di Alternative für Deutschland, che hanno continuato a manifestarsi nei mesi successivi: attualmente AfD, per i risultati ottenuti nelle elezioni regionali che si sono tenute dal 2016 fino all’autunno scorso è, con percentuali che variano dal 20 al 27%, il secondo partito in tutti i Länder della Germania orientale, dietro alla CDU in Sassonia e Sassonia-Anhalt, dietro alla SPD nel Meclemburgo e nel Brandeburgo e dietro la Linke in Turingia. Appare quindi evidente una correlazione tra la crescita del populismo e i successi elettorali dell’estrema destra. Ma, come vedremo, gli esiti dello studio di Vehrkamp e Merkel mostrano che la questione non riguarda soltanto quell’area. Come avviene anche in altri paesi (a cominciare dal nostro) il populismo è un fenomeno che attraversa buona parte dello spettro politico.
I tre criteri indicati all’inizio ispirerebbero, secondo il Populismus-Barometer, l’orientamento di un buon 30 per cento degli elettori tedeschi. Si tratta di una minoranza, ancorché robusta, giacché il 33% resterebbe invece ancorato a un atteggiamento positivo nei confronti della politica e del rapporto con le istituzioni. Ma si tratta di una minoranza forte e, almeno nel momento in cui i dati vennero raccolti (fine 2017), con un trend in crescita.
La correlazione più forte tra atteggiamento populista e scelta elettorale si riscontra, com’era facile aspettarsi, tra i votanti e i simpatizzanti di Alternative für Deutschland. E però esiste una sensibile correlazione anche tra gli elettori dei partiti del centro moderato, la CDU e la CSU e, anche se meno, i liberali, e una forte correlazione tra gli elettori dell’estrema sinistra, la Linke. Sono poco populisti, invece, elettori e simpatizzanti della SPD, pur se lo sono comunque più dei dirigenti del partito, cui i militanti della base non perdonano la scelta di aver accettato il ritorno alla große Koalition in nome della stabilità politico-istituzionale. Scelta che apparve all’epoca fortemente contraria alla volontà del “popolo socialdemocratico”.
Il partito meno insidiato dal populismo, comunque, è quello dei Verdi. I quali sono gli unici a non subire danni in termini di consensi per lo scivolamento populista nell’opinione pubblica. Al contrario: come si è visto nelle elezioni regionali più recenti e come mostrano i sondaggi, i Grünen conquistano consensi presentandosi proprio come un argine contro quello scivolamento. Vengono percepiti infatti come un baluardo dei valori della democrazia rappresentativa contro le derive dello spirito pubblico verso il plebiscitarismo e le lusinghe della cosiddetta “antipolitica”. Appaiono insomma come i difensori di valori che saranno pure un po’ in crisi e meno saldi che in passato, ma che comunque sarebbero ancora convintamente condivisi da una maggioranza, ancorché abbastanza ristretta, degli elettori tedeschi. In quest’area i Verdi tendono a fare il pieno perché beneficiano della scontentezza di molti simpatizzanti del centro disgustati dalla deriva populista dei due partiti dell’Unione. Lo si è visto molto chiaramente con l’analisi dei flussi nelle elezioni in Baviera dell’ottobre 2018. Nella campagna per quella tornata elettorale la CSU aveva adottato argomenti e toni duri verso l’immigrazione per rincorrere su questo terreno AfD, ma proprio questo determinò un massiccio spostamento dei suoi elettori meno inclini all’estremismo e all’esasperazione dei toni verso i Grünen. Di qui la crescita elettorale dei Verdi, i quali hanno aggiunto questa messe di consensi a quelli che, per ragioni diverse e più attinenti alla crisi di programma e di credibilità dell’establishment socialdemocratico, strappavano alla SPD. Queste ragioni hanno fatto sì che In alcuni Länder i Verdi siano balzati davanti ai socialdemocratici e non si può escludere che il trend continui e si rafforzi facendo sì che il sorpasso avvenga anche a livello federale.
Non sfugge che ci troviamo di fronte a un paradosso politico. I Grünen arrivarono sulla scena pubblica della Germania federale, dopo la metà degli anni ’70, con le stimmate del movimento anti-istituzionale duro e puro, continuatore in qualche modo della Grande Rivolta del ’68. Tra le loro figure carismatiche c’erano protagonisti del ’68 tedesco come Rudi Dutschke e Daniel Cohn-Bendit. Quaranta e più anni dopo gli eredi del movimento sono individuati, invece, come i campioni del sistema parlamentare rappresentativo del quale raccolgono le bandiere lasciate cadere dagli altri partiti: appaiono i politici meno esposti alle lusinghe dell’antipolitica e di illusorie fughe in fantasiose pratiche di pretesa democrazia diretta.
La contraddizione è molto meno paradossale, però, se si considerano più attentamente le caratteristiche del clima politico-culturale in cui il movimento nacque e che, in qualche modo, continuano a riproporsi ancor oggi. I Verdi ebbero fin dall’inizio una notevole sintonia con quelle tendenze dell’intellettualità tedesca di cui era espressione il cosiddetto patriottismo della Costituzione (Verfassungspatriotismus) teorizzato dalla Scuola di Francoforte e in particolar modo da Jürgen Habermas. Si trattava di un sistema di valori che ruotava intorno all’idea che il fondamento della Nazione fosse non un indistinto e mitizzato “popolo” (con tutto il portato di negatività che in Germania è storicamente associato al concetto di Volk, non solo in relazione al nazismo), ma la comunità dei cittadini costruita sulla partecipazione e su un sistema di valori, di istituzioni e di pratiche politiche profondamente condivise. È su queste basi che i Verdi tedeschi hanno costruito nel tempo un rapporto con le istituzioni fatto sempre di partecipazione attiva alle prassi parlamentari e mai di rifiuto preconcetto e scontro frontale, sempre democratico e mai “eversivo”, anche quando assumeva forme e contenuti molto radicali.
L’ispirazione comunitaria, idealmente all’opposto del carattere “verticale” del populismo, si manifesta chiaramente nell’atteggiamento verso gli stranieri, sia per quanto attiene all’integrazione degli stranieri presenti in Germania sia per quanto riguarda l’accoglienza dei migranti. Il modello dei Grünen è la società multiculturale, coerentemente con la loro idea di comunità al fondamento della quale ci sono i “cittadini” e non il “popolo” e che rifiuta le suggestioni, piuttosto avvertite in Germania dello ius sanguinis.
Alla luce dei pregiudizi e delle paure che qui da noi insidiano la materia (anche tra i politici e anche tra i politici di sinistra) può sembrare temerario affermarlo, ma è fondata l’impressione che l’atteggiamento aperto sull’integrazione e soprattutto verso l’accoglienza agli immigrati sia una delle chiavi che spiegano i successi elettorali dei Verdi. È vero che questo può suonare strano nel momento in cui in tutta Europa si moltiplicano preoccupanti segnali di intolleranza e di chiusura, in diversi paesi si rimettono in discussione i modelli di integrazione e si diffondono, anche in Germania, fenomeni anche gravi e violenti di islamofobia. Ma si può ritenere che, in qualche modo, la ragionevolezza dei Verdi su questo tema funzioni presso la parte maggioritaria dell’opinione pubblica che non è sedotta dalle cattive sirene della xenofobia e del pensiero securitario. Un’opinione che diffida dell’opportunismo cinico dei partiti dell’Unione, specie dopo la pessima prova fornita dalla CSU all’inseguimento di AfD in Baviera, ma anche dell’assenza ideale dei socialdemocratici, i quali, pure su questo terreno, sembrano paralizzati da una desolante mancanza di iniziativa.
I Grünen, insomma, in mancanza di concorrenza tenderebbero a fare il pieno degli elettori animati da buoni sentimenti in materia di accoglienza, atteggiamenti di cui si ebbero evidenti e confortanti testimonianze quando la cancelliera Merkel decise coraggiosamente l’apertura delle frontiere ai profughi siriani. Il clima, da allora, è certamente cambiato in peggio, ma si può ragionevolmente pensare che esista ancora una larga porzione dell’opinione pubblica che rifiuta xenofobia e discriminazioni.
Questa impermeabilità, per così dire, al populismo pone i Verdi in una situazione sicuramente favorevole nel panorama politico-elettorale della Germania, nella quale tendono a diventare il più convincente polo di riferimento dell’area sensibile ai valori “costituzional-patriottici”. Una situazione tanto più favorevole nel momento in cui le consapevolezze del riscaldamento globale stanno facendo crescere nella coscienza pubblica la sensibilità per quelle che sono una sorta di ragione sociale, di imprinting di nascita del movimento: le tematiche ambientali. E in cui il riarmo nucleare in Europa potenziale (e in parte già in atto) susseguente all’abbandono del Trattato INF potrebbe riaprire nel prossimo futuro la stagione delle proteste pacifiste, altra antica ragione sociale del movimento.
Il “non-populismo” dei Verdi tedeschi è chiaramente percepibile infine nell’atteggiamento verso l’Unione europea. Nel periodo in cui sembrava che le opinioni pubbliche dei diversi paesi scivolassero inevitabilmente verso il sovranismo, il loro coerente europeismo è apparso anch’esso in controtendenza e in momenti significativi di passaggio è stato sostenuto con coraggio. Va ricordato, ad esempio, che uno dei due punti di principio su cui, dopo le elezioni federali del settembre 2017, fallì l’improbabile tentativo di coinvolgere i Verdi in un’ alleanza di governo con la CDU/CSU onde uscire dall’impasse creata dal rifiuto (iniziale) della SPD a tornare alla große Koalition, fu la loro difesa, contro le pretese dei liberali e di buona parte dei partiti democristiani, di quel minimo di principio di solidarietà finanziaria che è rappresentato nell’Unione dall’esistenza del cosiddetto fondo salva-stati e, all’epoca, dal quantitative easing praticato della Banca centrale. L’altro punto di principio, irrinunciabile, su cui i Verdi ruppero fu la richiesta di una politica fiscale indirizzata alla battaglia contro le diseguaglianze.
Insomma, il “non-populismo” dei Grünen tende a collocarli su un’area che dovrebbe essere quella naturale della sinistra e li porta ad affrontare battaglie che erano tradizionalmente, e dovrebbero essere, quelle dei partiti tradizionali: in Germania la SPD, altrove altri partiti socialisti e progressisti. Il rapporto evolverà verso la concorrenza o verso la collaborazione in una alleanza, almeno nel Parlamento europeo?