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Politica

L’ordine regna a Kiev

28 February 2022
Francesco Olivieri

Nel 1831, la grande rivolta polacca contro la dominazione russa finì con la presa della capitale da parte delle truppe zariste, dopo una violenta battaglia nella città, casa per casa, con grande spargimento di sangue. A cose fatte, a Parigi il Ministro degli Esteri francese, Sébastiani, nel riferire in Parlamento sull’accaduto concluse spensieratamente affermando che “l’ordine regna oggi a Varsavia”, una frase immortale che da allora figura in tutti i libri di storia. Quasi duecento anni dopo la storia si ripete.

Gli americani si svegliano, queste mattine, con l’amaro inquietante senso di aver festeggiato troppo presto la caduta dell’URSS. A rafforzare questo senso di delusione contribuisce anche il milione di Ucraini emigrati in questo paese, dove molti dei loro discendenti si sono fatti largo nella vita della nazione, a cominciare dal leader Democratico del Senato, Schumer, e celebrità come l’attore Dustin Hoffman, o il compositore Leonard Bernstein, e tanti altri, troppi per citarne anche solo i maggiori.

Tutti qui ricordano che l’Ucraina ha avuto un ruolo indiretto nella contesa tra Trump e Biden, quando l’allora Presidente Trump fece di tutto per accusare Biden di legami illeciti e loschi affari in quel paese, giungendo a ricattare il governo ucraino con la sospensione della cooperazione militare fintanto che il governo di Kiev rifiutava di fornire “le prove” di queste accuse. E Trump, per una volta coerente, non ha atteso a lungo prima di intervenire nel pubblico dibattito di questi giorni, esprimendo estatica ammirazione per “il genio” di Putin. C’è da rabbrividire pensando che avrebbe potuto essere oggi il Presidente in carica, se non per un pugno di voti decisivi in pochi Stati americani, che hanno deciso altrimenti.

Rimane il fatto che è oggi pericolante il castello costruito in Europa con pazienza certosina nel dopoguerra per offrire al continente l’occasione e il tempo di risollevarsi e riprendere il suo posto nel mondo. Condizione principale, la scelta della democrazia: quando la democrazia è riapparsa in paesi dove era stata soppressa, come la Spagna o il Portogallo, e poi l’”oltre cortina”, l’Europa si è rapidamente estesa.

La scelta Europea sembra oggi negata all’Ucraina per un veto, espresso con le armi dalla Russia; ed è preoccupante che questa banale considerazione non susciti lo stesso livello di allarme dovunque e per tutti. Per quanto concerne l’America, ho già detto che Trump non ha potuto contenere la soddisfazione per le gesta di Putin -subito imitato da commentatori di simile o peggiore orientamento- sfidando la repulsione da parte della maggior parte degli americani.

Da quel momento in poi, era inevitabile che divenisse anche una questione di polemica interna.  E’ in corso questo fine settimana la annuale “Conservative Political Action Conference” (CPAC), che è il conclave del conservatorismo americano. La precedente riunione fu ancora completamente dominata l’anno scorso da Trump nonostante fosse fresco il ricordo dell’assalto al Congresso e la sua puerile condotta durante lo spoglio delle schede elettorali. Solo ora, un anno dopo, esponenti di peso del partito Repubblicano se la sono sentita di criticare Trump per il suo comportamento e per l’evidente offesa alla Costituzione del paese. Ma non aspettiamoci che questo sia anche l’orientamento che emergerà dal CPAC, che sarà probabilmente ancora una volta dominato dall’ex-Presidente e dai suoi imitatori e potenziali successori, come il discusso Governatore della Florida, De Santis, un possibile surrogato per un Trump sulla difensiva.

Perciò non deve sorprendere la notizia che un gruppo di conservatori, che vedono in questo connubio la fine del partito Repubblicano, ha formato un gruppo dissidente sotto il nome “Principle First” – “anzitutto i princìpi”- con l’impegno di rivendicare la base ideale del partito, ancorata ai principi patriottici che lo caratterizzavano. Questo sviluppo compare alla ribalta oggi come reazione all’atteggiamento anarchico assunto dai partigiani di Trump, indifferenti sia alla sorte dell’Ucraina e all’effetto che potrà avere, che alla implicita licenza di caccia per Putin, il quale potrà sentirsi autorizzato a proseguire la sua politica avventuriera. Si vedrà se questo movimento bene intenzionato sarà capace di ritagliarsi un seguito contro il circo equestre del CPAC, o invece sia solo l’ultimo disperato segnale di una zattera alla deriva.

Per l’immediato, inevitabilmente la guerra in Ucraina graverà sulla politica americana, e non aiuterà l’amministrazione Biden, che si trova a gestire le conseguenze di decisioni politiche che la precedono nell’arco di decenni. Il massimo che potrà fare sarà di comportarsi bene in un delicato frangente: la sfida di Putin inciderà comunque sul giudizio del pubblico, incitato dai seguaci dell’ex presidente, e non aiuterà a presentare un fronte compatto verso l’esterno.

Le sanzioni decretate da Biden trovano peraltro il consenso del pubblico, anche se la previsione di ricadute economiche negative in America è ben presente, soprattutto sotto forma di aumenti dei prezzi dei combustibili e delle derrate alimentari. Due terzi degli americani approva la reazione, ma Biden continua a soffrire di scarso “appeal”: la sua popolarità, dopo Kabul, non si è mai veramente risollevata, e gli avvenimenti in Ucraina lo dimostrano. Curiosamente, si è attestata su livelli simili a quelli che aveva Trump nel periodo equivalente della sua presidenza, intorno al 43%, con una decisa maggioranza contraria intorno al 52%. A Mosca questo suonerà incoraggiante; a Washington questo suona pericoloso, perché l’incitamento a mostrare vigore sarà più forte, mentre Biden è un paziente costruttore che non cede alla fretta.

Curioso che questa crisi sia nata per decisione di un leader, Putin, che a 70 anni sembra disposto a scommettere tutto sulla realizzazione del progetto della sua vita; e a Biden è capitato il ruolo, a 79 anni, di frapporsi tra lui e il suo destino. Non è scontato chi uscirà vincitore da questa sfida, anche se l’esercito russo alla fine occuperà il territorio. A partire da oggi, si è creata per generazioni una realtà di odio tra i popoli dell’Ucraina e della Russia, dove dovrebbe invece esistere una affinità creata dalla lunga storia culturale condivisa. Se l’Ucraina perde, la Russia perde ancor più. Inoltre, ricordiamo che la “dottrina Putin” non si ferma a Kiev: l’obiettivo è un ambizioso “nuovo ordine”, e a 70 anni il tempo stringe.

Anche per l’Europa il tempo stringe. Sta stringendo, in verità, da un bel po’ di tempo; in molti, ci siamo chiesti se davvero occorresse uno shock esterno di dimensioni drammatiche per focalizzare la nostra attenzione su ciò che sappiamo di dover fare per rimettere in marcia il progetto dell’Europa. Una generazione fa, era una prospettiva visionaria; oggi, è qualcosa di visibile nel retrovisore, ma non ancora tanto distante da non poter essere recuperato. Questo può essere lo scossone che ci sveglia.

Intanto un vincitore c’è già, e abita a Pechino. È interessante che Putin sia andato a trovarlo prima di lanciarsi in questa sua avventura, un po’ come facevano i monarchi del Medio Evo che andavano dal Papa per avere una benedizione prima di lanciarsi in rovinose campagne militari. Stalin non sarebbe certo andato da Mao, quindi qualcosa è cambiato. Va registrato peraltro anche il comportamento riservato di Xi Jinping durante questa fase del conflitto in Ucraina. Del resto, di cosa dovrebbe lamentarsi? La condotta di Putin scava un fossato attorno alla Russia, cui non resterà per sostegno altra risorsa che la Cina. Al tempo stesso, la questione di Taiwan non è pressante per Pechino: lo diverrebbe solo se Taiwan puntasse sulla scelta ufficiale dell’indipendenza dalla Cina, presentando una vicenda simmetrica rispetto a quella del Donbass. La Cina ha intera libertà d’azione, e prenderà le proprie decisioni per conto proprio: sono duecento anni che aspira a farlo, ed ora ne ha la possibilità. In altre parole, Xi Jinping ha il tempo che Putin forse non ha, e non gli rimane che attendere pazientemente che il frutto maturo cada nel suo cestino, mentre la Russia con questa avventura militare si è preclusa ogni alternativa, e l’America è impegnata al limite delle sue previsioni.

Già, perché -senza un grande battage, è vero che con la “2012 Defense Strategic Guidance”, il governo americano dieci anni fa -per ridurre le spese- ha degradato la preesistente dottrina militare dei “due fronti”, che comportava essere pronti a gestire due guerre contemporanee, come accadde durante la Seconda guerra mondiale. La nuova DSG sembra prevedere invece un conflitto e mezzo, per così dire: uno da combattere e vincere, e all’occorrenza un altro per difendere e scoraggiare. Dieci anni dopo, si ripropone oggi il quesito se si sia agito frettolosamente.