Il Piano Mattei: una scommessa per l’Italia?

Giuseppe Morabito
Ambasciatore, è stato Direttore Generale Africa del Ministero Affari Esteri, ed é stato Ambasciatore a Beirut e a Lisbona

Il Piano Mattei per l’Africa, nato come risposta al crescente flusso di immigrati irregolari in Italia (chi non ricorda lo slogan: “aiutiamoli a casa loro”?), si è subito trasformato in qualcosa di più ambizioso. Da un lato ci è resi conto che l’immigrazione non si può fermare del tutto e che abbiamo bisogno di immigrati; dall’altro che l’Africa è un’opportunità. Da qui nasce l’idea di far diventare l’Italia un hub energetico verso l’Europa, oggi con gli idrocarburi e in futuro con le energie rinnovabili.

Approccio e metodo nuovi è stato detto. Un approccio né “predatorio” (la linea di Enrico Mattei nel mondo coloniale dell’epoca); né “caritatevole”. Qui lo spartiacque è costituito da un libro di un’economista zambiana, Dambisa Moyo, pubblicato in Gran Bretagna nel 2009 e intitolato “Dead Aid”. Secondo la Moyo l’aiuto pubblico allo sviluppo crea dipendenza, frena lo sviluppo di imprenditorialità locali e alimenta la corruzione (in particolare di chi ricava un vantaggio indebito dagli aiuti ed è interessato a conservare quel sistema). Cita l’esempio dei produttori di reti anti zanzare finiti fuori mercato perché i Paesi donatori le regalavano. Tesi paradossali, che contengono però una buona dose di verità.

Metodo di lavoro nuovo. Chi ha avuto conoscenza del modo di operare dell’Amministrazione italiana sa che è estremamente difficile far lavorare insieme diverse branche dello Stato; ancor più complicato far collaborare tra di loro Stato, imprese, ed espressioni della società civile come le ONG. Riuscire in questo sarà una rivoluzione copernicana.

Far lavorare insieme soggetti diversi, inclusi i Ministeri, ha posto una scelta obbligata: il coordinamento andava fatto a Palazzo Chigi. Da qui la cabina di regia, per la linea politica, e la struttura di missione, per l’esecuzione.

Si è detto che il Ministero degli Esteri e della Cooperazione Internazionale fosse stato emarginato. In realtà il MAECI svolge un ruolo fondamentale: a parte il Fondo italiano per il clima, le risorse provengono dalla Farnesina (2,5 miliardi di euro su un totale di 5,5 in quattro anni); le competenze degli Esteri non sono più quelle limitate di una volta, riguardando anche l’internazionalizzazione delle imprese (si pensi all’ ICE che ora fa parte della Farnesina, ma anche al ruolo di SIMEST e CDP); i responsabili della struttura di missione sono diplomatici il che facilita il dialogo tra Farnesina e Palazzo Chigi.

La mia impressione è che questo meccanismo complesso stia funzionando. Oltre alla struttura di missione, le missioni in Africa coinvolgono in primo luogo le due Direzioni Generali del MAECI che si occupano rispettivamente di cooperazione allo sviluppo e di promozione delle imprese, e l’AICS (Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo), oltre a soggetti privati (imprese, associazioni di categoria, ONG). La presenza del Segretario Generale della Farnesina alle “missioni congiunte del sistema italiano della cooperazione”, come vengono chiamate in gergo burocratico, è una novità rispetto al passato. L’Ambasciatore Guariglia ha partecipato a tre di queste: Africa orientale (Etiopia, Kenya, Tanzania, Uganda); Africa occidentale (Guinea, Ghana, Senegal, Costa d’Avorio); ed Africa australe (Zambia, Malawi, Mozambico, Sudafrica). Ne ha approfittato per riunire, rispettivamente a Dar es Salaam, Abidjan e a Città del Capo, gli Ambasciatori ed i Direttori dell’AICS della regione. Dall’elenco dei Paesi coinvolti è chiaro che l’Italia non guarda più solo alle sue ex colonie o ai Paesi saheliani di partenza o transito di migranti, ma cerca di aprirsi a paesi nuovi. È l’idea della “inclusività”: il piano Mattei non riguarda quindi solo i nove Stati africani (quattro del Nordafrica e cinque dell’Africa sub – sahariana), destinatari dei progetti pilota.

Le missioni in loco prevedono incontri con i partner africani, a cominciare dal livello governativo, momento essenziale di quella strategia dell’ascolto che si vuole portare avanti. Così capita che ad un incontro, ad esempio con il Ministro della Salute di un determinato Paese, partecipino il MAECI, la struttura di missione e le ONG interessate. Si va insieme, cosa per noi inusuale, perseguendo il tanto decantato approccio dal basso verso l’alto. Qui l’Italia è avvantaggiata rispetto ad altri Paesi: sia per una congenita disponibilità al dialogo; sia per la dimensione relativamente piccola delle nostre ONG rispetto a quelle internazionali, sia per quella delle nostre imprese, che la mette in condizione di essere maggiormente ricettiva dei desiderata degli africani.

        La ristrettezza di risorse finanziarie è un problema annoso. La scommessa è quella di far diventare il piano Mattei un moltiplicatore di risorse, attraverso il coinvolgimento delle istituzioni finanziarie internazionali e per certi versi anche delle imprese. Un ruolo fondamentale lo dovrebbe svolgere la Banca Africana di Sviluppo (Afdb), che ha sede ad Abidjan. È una banca solida (tripla A) ed è sostenuta dall’Unione Africana. Il meccanismo è semplice: ad un euro messo dall’Italia si aggiunge un euro della Banca regionale africana.

Con la Afdb è stato creato un fondo multi donatori con l’obiettivo di coinvolgere investitori esteri (gli Emirati Arabi Uniti hanno aderito con cento milioni di euro e si spera che altri seguano).

Al G7 di Borgo Egnazia è stato lanciato il “Growth and Resilience Africa Fund” (GRAf,) per finanziare iniziative promosse dal settore privato in Africa, con particolare attenzione alle piccole e medie imprese locali ed alla sicurezza alimentare. CDP e Afdb metteranno ciascuna 200 milioni di euro (l’obiettivo è raggiungere 750 milioni in totale). A questo strumento si aggiunge “Plafond Africa”, con 500 milioni messi dalla CDP. Sempre a favore delle PMI la SIMEST ha varato la Misura Africa (finanza agevolata).

Banca Mondiale, BEI (Banca europea per gli investimenti) e BERS (Banca europea per ricostruzione e lo sviluppo), sono anch’esse nel mirino, le ultime due per il raccordo con il “Global Gateway” dell’Unione Europea.

L’ANCE (Associazione nazionale costruttori edili) ha creato i suoi strumenti: “PrimAfrica Climate Fund”, destinato a raccogliere capitale di rischio per finanziare infrastrutture nel campo dell’acqua, dei trasporti e degli ospedali, al quale si aggiunge una collaborazione con un gruppo finanziario anglo – sudafricano per investimenti nelle energie rinnovabili (con cofinanziamenti della CDP).

Altro banco di prova è la formazione. Si vogliono formare tecnici da inserire nel mercato del lavoro africano. Nulla però esclude che una parte minoritaria di questi possa trovare impiego in Italia, sul modello dei “corridoi lavorativi” che la Comunità di Sant’Egidio ha lanciato dopo la felice esperienza dei “corridoi umanitari”.

        Il bando dell’AICS di 180 milioni di euro a favore di iniziative degli enti territoriali e delle ONG (76,5 milioni destinati alla formazione, 85% delle risorse complessive all’Africa), ha ricevuto il triplo delle domande rispetto alle disponibilità, segno che si è sulla buona strada. Non ci sono però solo i bandi della Farnesina e tre esempi possono far capire meglio come ci si stia muovendo.

“Res4Africa”, fondazione presieduta dall’ENEL, finanzia presso la Bocconi ed il Politecnico di Milano corsi di formazione nel settore delle energie rinnovabili. Prepara i tecnici che dovranno far funzionare gli impianti ed i manager che dovranno gestire un sistema elettrico. Con fondi europei e la gestione dell’OIM (Organizzazione internazionale delle migrazioni), l’ANCE ha avviato a Tunisi un corso pilota di formazione di 40 tecnici dell’edilizia, destinati ad essere impiegati in Italia. In prospettiva si pensa di aprire il corso a cittadini di altri Paesi africani. Infine, il CUAMM, una ONG cattolica di Padova, che da anni si occupa di sanità in Africa, grazie al piano Mattei sta rafforzando la sua azione nel campo della formazione (mediamente forma ogni anno tremila persone tra infermieri, addetti di laboratorio e agenti comunitari sanitari), oltre a cinquanta medici.

Qui la sfida del piano Mattei è duplice: finanziare iniziative con soggetti scelti per serietà e competenza, evitando di dare l’impressione di seguire logiche da manuale Cencelli; ridurre i costi della formazione che nella cooperazione internazionale sono spesso una variabile indipendente.

Mi sono dilungato su questi aspetti perché sono novità importanti del piano Mattei delle quali non si è parlato molto (a differenza, ad esempio, del progetto di hub energetico). Certo, per citare un grande giornalista, Mario Missiroli: “Non c’è nulla di più inedito della carta stampata”. D’altronde, per quanto riguarda i progetti di cooperazione, non mi pare che si voglia fare tabula rasa del passato, bensì adattare la nostra cooperazione alle esigenze poste dai nuovi bisogni degli Stati africani, avere un impatto maggiore sulle loro economie e le condizioni di vita della gente, creare meccanismi di sviluppo endogeno. E questo anche esplorando settori nuovi, come la cooperazione tra imprese, la ricerca, la cooperazione universitaria, persino l’aerospaziale (che non serve solo per andare su Marte, ma anche per l’agricoltura e per monitorare il cambiamento climatico).

Riuscirà il piano Mattei a rilanciare la presenza italiana in Africa? Il momento è opportuno (se non ora, quando?), ma il quadro non è favorevole. Ci muoviamo in controtendenza. I Paesi europei sono in ritirata dall’Africa da anni. La Francia ha problemi enormi causati da una politica estera invasiva e poco rispettosa delle realtà locali. Ci sono nuovi attori internazionali che prendono il posto degli occidentali: Cina, Turchia, Paesi del Golfo, India, Corea del Sud, Israele, Brasile, persino l’Iran. La Russia è tornata, seguendo un modello che - faute de mieux - ricorda quello dell’Unione Sovietica.  Questi nuovi soggetti non dovrebbero spaventarci: con alcuni di essi si potrebbe persino pensare a proposte di collaborazione. Antagonizzarli, per difendere pretese egemoniche che rischiano solo di aumentare la tensione internazionale, non serve a nessuno.

L’Italia, sia pure con la tradizionale prudenza della nostra diplomazia, è aperta al dialogo con tutti. Due esempi. Con il Niger, che ha rotto persino i rapporti con la UA e l’ECOWAS (l’organismo regionale degli Stati dell’Africa occidentale), si cerca di mantenere un canale di dialogo. Il Ministro delle Imprese e del made in Italy, Adolfo Urso, si è recato lo scorso giugno in Eritrea (Paese con il quale da anni non parla più nessuno). Beninteso l’Italia ha interesse a non escludere l’Europa e a tenere informati i nostri principali alleati, a cominciare dagli Stati Uniti, con i quali condividiamo le preoccupazioni per il diffondersi del terrorismo e l’interesse per le terre rare, oggi in gran parte controllate dalla Cina. Del resto gli europei seguono attentamente quello che fa l’Italia: alcune cooperazioni europee si sono rivolte all’AICS per entrare con propri co-finanziamenti in Paesi dove non si sentivano molto gradite. All’opposto l’Italia ha interesse a non farsi condizionare troppo da alcuni Paesi europei col rischio di vedere snaturato il piano Mattei.

Il gioco è complesso, ma vale la pena tentare: rischiamo di abbandonare del tutto l’Africa o, all’opposto, i benefici – per i nostri partner e per noi - potrebbero essere sorprendenti.