Alle prese con la democrazia
Una settimana ancora, prima di leggere il risultato finale delle elezioni americane, che sono in corso di svolgimento ormai da qualche tempo. Sui 161 milioni di cittadini iscritti al voto, una quarantina di milioni hanno già votato, approfittando delle norme che nei vari Stati consentono il voto anticipato.
La tendenza è ancora difficile da interpretare, anche se esistono ipotesi basate sulle notizie regionali o sulle categorie di votanti, per età e per genere: del resto, ancora pochi mesi fa, dicono i sondaggi, una metà degli iscritti al voto riteneva che né Biden né Trump dovessero candidarsi, per il bene della nazione. Un bel punto di partenza… e un consiglio che Biden, uomo di partito, poteva anche seguire, come ha fatto, ma certo non Trump. Difficile per lui identificarsi nel paese: a differenza di un De Gaulle (“La France, c’est moi”), visibilmente non cerca nel partito se non lo strumento ai propri fini. Per riferirsi ai Repubblicani, pochi adoperano ormai l’acronimo tradizionale, il “G.O.P.”, cioè il “Good Old Party” della tradizione conservatrice. È un po’ come il riconoscimento di un passaggio di proprietà, e avendo fatto questo investimento, oggi il cittadino Trump si trova contrapposto ad un’altra figura che non ha precedenti nella storia politica degli Stati Uniti.
Kamala Harris, che è ben conosciuta come parlamentare e ha già un rispettabile curriculum politico, non deve dimostrare niente più se non la fermezza con cui si opporrà o (posizionerà contro) al suo competitore. Si assiste oggi negli Stati Uniti all’apparizione della prima donna che compete alla pari per assumersi la responsabilità della nazione, e Kamala, reclamando la Presidenza, sa bene di essere protagonista di un momento storico. A partire da questi giorni, nessuno potrà più ignorare che al momento del voto la partecipazione percentuale più elevata sarà ancora una volta quella femminile, come avviene già di volta in volta in maniera sempre più marcata fin dagli anni ’80.
Cosa cambia per gli equilibri politici resta da stabilire, anche se si ritiene già, sulla base della tendenza delle trascorse elezioni, che quanto sopra si possa tradurre in partenza in un lieve vantaggio per il partito Democratico. In vista ormai del voto effettivo e dello spoglio reale delle schede elettorali, i dati statistici che sono circolati in questi ultimi giorni puntano infatti ad una pressoché pari possibilità di vittoria per ciascuna delle parti, ma con una lieve preferenza a favore dei Democratici, la cui entità (0,3 % di vantaggio sui Repubblicani) non è tale per ora da garantire alcunché.
La cautela per questo genere di stime è maggiorata dal fatto che il sistema americano non concede vittoria automaticamente a chi tra i candidati accumula il maggior voto popolare nel suo insieme, ma fa riferimento al voto degli Stati, che è beninteso a sua volta determinato da quale partito abbia vinto in ciascuno di essi.
Si può comprendere come la serata del giorno delle elezioni sia potenzialmente incerta: la proclamazione ufficiale del vincitore da parte del Collegio Elettorale non avviene infatti prima dell’ultima settimana di dicembre, ma nel corso degli anni si è elaborata una procedura che rende improbabile, anche se non impossibile, un risultato differente da quello che sarà diffuso sugli schermi di milioni di americani già nelle ore tarde del giorno delle votazioni.
Con queste elezioni ormai imminenti si aprirà un nuovo capitolo.
Questa volta, il confronto non è, come spesso nel passato, tra due figure diverse ma sostanzialmente omogenee. Da un lato infatti troveremo un personaggio non solo discutibile, ma potenzialmente distruttivo per la tradizione democratica americana. La visione egocentrica di Trump, che non sembra curarsi dell’insegnamento dei grandi protagonisti di questa democrazia ed è invece attratto esplicitamente dall’esempio dei più tragici protagonisti della storia europea, può portare un danno irrimediabile al paese.
Come reagirebbe il resto della nazione? Per la prima volta in questo secolo nella mente degli americani ricorre nuovamente lo spettro della guerra civile. Un recente film sviluppa apertamente questo incubo e ne fa una sequenza ininterrotta di orrore e di sangue che nessuno sa dominare. È in giro nelle sale di questi tempi, e si può solo sperare che faccia riflettere chi si sente pronto a sventolare una diversa bandiera.
Ma le dichiarazioni di Trump all’avvicinarsi del voto sono sinistre: promette il rifiuto della eventuale sconfitta, come già aveva tentato quattro anni fa, e se fosse seguito da un numero di seguaci, chi può garantire che si eviterà lo spargimento di sangue? In un paese dove i fucili a ripetizione sono più numerosi nelle case dei cittadini che nelle caserme dell’esercito, non è uno scherzo. Chi li fermerà?
È da ammirare il coraggio della candidata rivale, che certo non si fa illusioni sulla mansuetudine di un Trump al momento della sua eventuale sconfitta. È anche l’inizio di un periodo in cui l’America dovrà concentrarsi sul modo di ricreare il senso di comunanza, di condivisione della magnifica occasione che ha avuto il paese di creare dal nulla una comunità unita nonostante tutte le differenze che conosciamo, nei cinquanta stati della nazione. Non sappiamo ancora se vincerà l’immagine femminile della ragione o quella contrapposta, che si spaccia per maschile, intesa a fruire di ciò che può carpire.
Occorre sperare che la preferenza per la storia – avventurosa ma ammirabile – di questi Stati, che sono Uniti dalla ragione e sono la culla della loro stessa cultura, non ceda a quella della prepotenza nascosta dietro le bugie di una favola. Occorrerà impegno serio dei cittadini, cominciando dai “media”, in cui siamo immersi da mattina a sera. Un giornalismo energico e intelligente sarà prezioso.
Chi scrive ha avuto il privilegio, assieme agli altri colleghi a Washington, di essere presente e coinvolto – come osservatore e come messaggero di un’altra nazione – nei momenti che si vivevano negli anni di Nixon, giunto al “redde rationem” mentre quotidianamente scorreva la trama dello storico episodio del Watergate, quando gli eroi della democrazia apparivano essere quei giornalisti che – coperti dall’autorità dei proprietari delle rispettive testate – quotidianamente sfidavano la Casa Bianca per dare ai cittadini il resoconto di ciò che una amministrazione politica deviata stava cercando di fare del loro paese. Per noi, osservatori provenienti da un altro pianeta, se capitava che fossimo privati della nostra dose quotidiana del “Washington Post”, la giornata diveniva oscura.
Le testate ci sono ancora, i loro titolari non più, succeduti oggi da uomini d’affari di successo; e non si poteva in quei giorni non essere colpiti dal coraggio con cui la notizia veniva firmata e diffusa da giornalisti senza paura, forti del sostegno del pubblico – e dei loro editori.
Nemmeno Nixon, che pure bombardava senza scrupoli vasti territori del Sud-Est asiatico, aveva autorità sul Post, grazie all’incredibile figura della nuova proprietaria del giornale. Katharine Graham era una dama di Georgetown, i Parioli di Washington, ma era tutt’altro che una fragile figura dei salotti della capitale. Aveva inaspettatamente ereditato il giornale dopo il suicidio del marito, che lo stava dirigendo; e la Graham che aveva chiare idee sulla missione di un organo della stampa libera, aveva condotto il quotidiano a mostrare i denti, rivelando tutti i segreti che il governo non voleva condividere, anche se significava guerra con l’establishment di Nixon.
In nome della democrazia, che si nutre di conoscenza, pubblicò dapprima i “Pentagon Papers”, documenti segreti ufficiali che smascherarono la guerra segreta di Johnson nel Vietnam, provocando una baraonda. Era solo l’inizio: poi raggiunse l’apice con la vicenda del Watergate, giorno dopo giorno demolendo l’informazione deviata proposta dalla Casa Bianca di Nixon – il quale solo dopo mesi di informatori segreti e di rivelazioni inattese, quando la vicenda (dopo aver regalato al folklore giornalistico e politico americano la figura della “Gola Profonda” da cui provenivano le rivelazioni più estreme) approdò inevitabilmente al Congresso – e fu infine costretto a dimettersi.
Oggi, queste figure stanno svanendo nel passato, proprio mentre si prepara un passaggio di consegne alla Casa Bianca, perché alla testa di questa stessa gloriosa pubblicazione (che continua a reclutare tra i migliori giornalisti, analisti e commentatori del paese) vi sono nuovi leader che vengono dal mondo degli affari, ed è perfettamente comprensibile che i nuovi padroni appaiano più plutocratici che quelli del passato.
Per cominciare, hanno già detto che il giornale non condividerà più le sue conclusioni sul valore degli aspiranti al potere, come con i loro predecessori aveva coraggiosamente fatto… segnale che una antica fiera tradizione, un vanto per l’America, impallidisce e se ne va, in un momento in cui la sua importanza si è quanto mai accresciuta. Molto tempo fa, Franklin, a un curioso che gli chiedeva come sarebbe stata la nuova nazione che nasceva in quei giorni, rispose “una Repubblica, se saprete conservarla”.