È possibile decolonizzare il Piano Mattei per promuovere la giustizia climatica?
Durante la 29° Conferenza delle Parti (COP) delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici di Baku, in occasione della Giornata della Finanza, al Padiglione Italia si è tenuto l’evento organizzato da Cassa Depositi e Prestiti (CDP) in collaborazione con il Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale (MAECI) e il Ministero dell'ambiente e della sicurezza energetica (MASE) dove, con grande enfasi, è stato presentato il “Piano Mattei per l’Africa” come “modello per uno sviluppo sostenibile”. Il Piano Mattei, almeno in parte, può essere considerato come una politica climatica, ossia come una decisione pubblica che ha l’obiettivo di ridurre le emissioni o di prevenire e ridurre al minimo gli effetti dei cambiamenti climatici. Per questo motivo il Piano viene finanziato anche con circa 3 miliardi di euro del Fondo Italiano per il Clima gestito da CDP e mira ufficialmente a sviluppare partnership per promuovere infrastrutture verdi, migliorare l'accesso a energia e acqua, e rafforzare la sicurezza alimentare in nove Paesi africani: Marocco, Tunisia, Algeria, Egitto, Costa d’Avorio, Etiopia, Kenya, Repubblica del Congo e Mozambico. Dietro i toni trionfalistici però emergono profonde contraddizioni. Il Governo Italiano ha più volte ribadito con forza che si tratta di un piano di interesse nazionale, eppure tra i principi fondamentali dello sviluppo sostenibile figura quello per cui i benefici della crescita economica devono essere condivisi ampiamente, senza lasciare indietro nessuno e soddisfacendo i bisogni del presente senza compromettere le generazioni future. L’astrattezza del Piano Mattei dal punto di vista di governance, contenuti e risorse finanziarie, lascia aperti enormi spazi di ambiguità che rischiano di promuovere una corsa predatoria alle risorse africane (aumentando di fatto le già profonde disuguaglianze esistenti).
Se una cittadina dovesse chiedere al Governo cosa è realmente il Piano e quali sono i suoi impatti sul territorio dei diversi Paesi, questo rischierebbe di non essere in grado di rispondere. Il Piano Mattei infatti si inserisce nella dinamica sempre più frequente nell’azione per il clima, quella della partnership pubblico-privato. Fin qui nulla di male: da una parte l’amministrazione pubblica non detiene abbastanza finanziamenti per raggiungere gli obiettivi di neutralità climatica, dall’altra il privato mette a disposizione le proprie risorse o piani di investimento per contribuire agli obiettivi dell’amministrazione. Il problema è che spesso in questo modo l’azione per il clima viene esposta a quello che l’OCSE definisce rischio di “policy capture”, quando le politiche vengono indirizzate verso un interesse specifico invece che verso un interesse pubblico. A ciò si aggiunge che l’approccio win-win è tale solo per i soggetti che partecipano effettivamente alla contrattazione, in questo caso lo Stato e l’impresa, escludendo di fatto le comunità che vengono impattate dagli investimenti. Anche per questi motivi il Piano, nato per rendere l’Italia l’Hub energetico dell’Europa, è stato disegnato sui piani di investimento dei principali attori industriali italiani, specialmente quelli operanti nel settore energia, che fanno parte della Cabina di regia. Il Piano Mattei però non è una totale novità, già nel Piano nazionale di contenimento dei consumi di gas naturale (2022) si era posta la necessità di svincolarsi dal gas naturale russo nella copertura del fabbisogno nazionale (che nel 2021 era circa il 40%) e di diversificare rapidamente la provenienza delle importazioni alla luce dell’aggressione dell’Ucraina, successivamente rafforzata dall’introduzione dell’iniziativa REPowerEU. Nel piano si annunciava la firma di un accordo per il graduale aumento delle forniture di gas dall’Algeria per sfruttare le capacità del gasdotto Transmed che approda in Sicilia e della partnership tra ENI e Sonatrach, che hanno poi formalizzato l’accordo a inizio 2023. Al contempo venivano incrementate le importazioni dal gasdotto TAP (il quale collega la Turchia all’Italia entrando dalla Puglia) e, in coordinamento con ENI e SNAM, il Governo ha lavorato per garantire l’approvvigionamento da Egitto, Qatar, Congo, Angola, Nigeria, Mozambico, Indonesia e Libia.
Se come evidenziato nell’Energy Outlook 2023 di BP la struttura della domanda di energia sta cambiando segnando una diminuzione dell’importanza dei combustibili fossili, gli ultimi segnali dalla COP 29 sembrerebbero dare adito al sospetto che l’obiettivo principale sia quello di sfruttare economicamente fino in fondo il profitto dei combustibili fossili e parallelamente fare dei timidi passi in avanti con le fonti da energia rinnovabile. In linea con ciò le perplessità circa il Piano Mattei aumentano se si pensa al fatto che tra i criteri di ammissibilità dei progetti il gas viene presentato come un combustibile di mitigazione del cambiamento climatico. Il Governo inoltre non fornisce (o forse non ha) dettagli quali il cronoprogramma, indicatori di misurazione dello stato di avanzamento degli interventi o un resoconto narrativo dei singoli progetti. Inoltre, non esistono meccanismi di controllo o monitoraggio per rilevare i rischi per la violazione dei diritti umani e ambientali da parte delle imprese nell’ambito di ogni iniziativa finanziata, come anche la recente Direttiva europea sulla Due Diligence obbligatoria per le imprese in materia di diritti umani ed ambiente (CSDDD) inviterà a fare. Da notare è poi l’assenza in Italia di un’"Autorità indipendente per la promozione e tutela dei diritti umani" che dal 1993 ci siamo impegnati ad istituire con l’approvazione della risoluzione delle Nazioni Unite n.48/134, che potrebbe richiedere alle imprese informazioni circa il proprio operato e di svolgere indagini - sia di propria iniziativa, sia sulla base di preoccupazioni fondate sollevate dalle parti interessate. In poche parole: a fronte di una scarsa trasparenza, le imprese che attueranno i progetti saranno le uniche a conoscere i reali impatti sul territorio.
Considerato quanto detto, è indubbio che il Piano Mattei si inserisce in un contesto globale, dominato da interessi geopolitici ed economici, in cui le sfide dei cambiamenti climatici rischiano di essere strumentalizzate per servire interessi nazionali come la corsa ai minerali critici per la transizione (come rame, lito, nichel, cobalto e terre rare). Il coinvolgimento della CDP, ente pubblico che dovrebbe avere nel suo statuto una missione chiara sugli investimenti delle tasse degli italiani, aumenta il rischio concreto che, anziché sostenere una reale transizione verde, il Piano Mattei diventi un’operazione di greenwashing, utilizzando il linguaggio della sostenibilità per coprire iniziative che potrebbero aggravare la crisi climatica, aumentare le disuguaglianze e perpetuare gravi fenomeni di ingiustizia. Il Piano sembrerebbe riprodurre le dinamiche storiche di sfruttamento delle risorse del sud globale, contribuendo a una dipendenza economica che ostacola l'autodeterminazione dei paesi africani. In molte aree, la gestione delle risorse è carente e dominata da élite locali o multinazionali, con scarsi benefici per la popolazione. Per concretizzare l’obiettivo di partnership paritaria e introdurre un approccio “decoloniale”, è cruciale garantire che i Paesi africani e le comunità interessate dagli investimenti abbiano un ruolo centrale nella decisione degli interventi e che questi siano realmente orientati a rispondere alle priorità locali. Il mancato coinvolgimento diretto dei paesi africani nella pianificazione del Piano, come evidenziato durante il vertice Italia-Africa, mostra una persistente mancanza di inclusione e partecipazione attiva nella definizione delle priorità climatiche delle comunità con il rischio di replicare politiche diseguali. Non è un caso se nel gennaio del 2024 ha ricevuto le critiche del presidente della Commissione dell'Unione Africana, Moussa Faki Mahamat.
Forse però non dovremmo stupirci se 'Italia sembra aver presentato trionfalmente un piano che rischia di dirottare fondi per conseguire gli obiettivi climatici su progetti che rischiano di mettere in ginocchio la vita di miliardi di persone anche fuori dall’Africa. D’altronde nella stessa settimana, in quella che è la COP più discussa degli ultimi trent’anni, il Presidente dell’Azerbaigian ha definito il gas e il petrolio “un dono di dio” mentre gli attivisti sono stati costretti a manifestare mormorando, canticchiando a bocca chiusa e schioccando le dita.