Alla ricerca di nuovi modelli di democrazia partecipativa
“L’uomo che trova dolce la sua patria non è che un tenero principiante; colui per il quale ogni terra è come la propria, è già un uomo forte; ma solo è perfetto colui per il quale tutto il mondo non è che un paese straniero”, da oltre mille anni quest’apparente paradosso viene periodicamente ripreso da filosofi, storici e linguisti per denunciare il nostro vizio ricorrente a non riconoscere gli altri per il timore di perdere la nostra identità, tanto ne siamo insicuri.
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Un’avvertenza ovvia e tuttavia non scontata, quando parliamo di America Latina, invita a tener conto non solo delle affinità, ma anche delle differenze talvolta rilevanti che intercorrono tra i venti paesi compresi in quest’unica denominazione. Scelta peraltro non dai diretti interessati, bensì dal soggettivismo culturale e dagli interessi materiali degli Stati europei che ne condizionarono la formazione nazionale (sulla quale anche gli Stati Uniti non sono stati certo ininfluenti). Un suo uso canonico espone al rischio di forzare la realtà delle situazioni, per cercare di trovare o mantenere delle uniformità esistenti solo in parte o del tutto convenzionalmente.
La diversa origine culturale e socio-antropologica dell’America Latina rispetto a quella anglosassone (che rinunciando a questa sua propria aggettivazione ne ha sequestrato di fatto il sostantivo America), il ceppo latino condiviso dalle lingue dominanti (spagnolo e portoghese), la continuità geografica dal rio Grande del Norte allo stretto di Magellano, il similare sistema istituzionale e la comune base economica fondata sull’export di materie prime non cancellano e in qualche caso - al contrario - sottolineano le diversità determinate dai livelli di sviluppo economico e culturale, dall’estensione territoriale e dal numero e origine etnica degli abitanti.
Argentina, Brasile e Messico mostrano grandezze complessivamente comparabili. Il Cile si avvicina loro solo nella proporzione del suo livello di sviluppo industriale. Tutti gli altri paesi si caratterizzano per il peso assolutamente preponderante della produzione mineraria e/o agricola nelle rispettive economie condizionate dall’export. Con affinità etnico-culturali significative tra i paesi andini affacciati sul Pacifico e tra quelli centroamericani. Tutti dati che come sappiamo sono presenti negli annuari e nei libri di storia, ma che nondimeno vengono spesso trascurati al momento di considerare i loro effetti sulle culture e sulle strutture politico-istituzionali dei vari paesi.
Possiamo così osservare, cominciando dalla più irruente attualità, che due paesi limitrofi, Argentina e Bolivia, il primo - uno dei maggiori- nel mezzo di una tempesta produttiva e monetaria e indebitato fino al collo (circa il 100% del PIL), il secondo – di dimensioni intermedie – con i conti in ordine e un’economia florida, subiscono sorti rovesciate rispetto al senso comune. L’Argentina rispetta pienamente la prassi costituzionale, alla scadenza prevista va alle urne ed elegge senza traumi un governo di segno diametralmente opposto al precedente. La Bolivia, istituzionalmente turbata da una consultazione elettorale controversa nella legittimità e nei risultati, precipita nel colpo di Stato.
Esiti clamorosamente contraddittori, che evidenziano (e questo, in passato, è già accaduto in altre zone del sub-continente) l’incomparabilità di tenuta istituzionale dei diversi paesi. A loro volta rivelatrici del livello di maturità e integrazione politico-culturale complessivo di ciascuno. Le cause di ciò vanno ricercate nelle loro singole storie e nella conseguente consistenza dei rispettivi sistemi di governo, pur non dissimili in termini giuridico-formali. Ma anche nelle diverse congiunture temporali. Il golpe della Cia contro Jacobo Arbenz nel Guatemala del 1954 determinò un’epoca; qual è il rilievo del recente auto-golpe del presidente Nayib Bukele in El Salvador?
Antica nell’origine ma modernissima e universale per la sua clamorosa attualità, vieppiù esaltata dalla controversa globalizzazione intesa come modello di sviluppo totalizzante, constatiamo una contraddizione trascurata da molte analisi. quella causata dalla peculiarità delle concezioni esistenziali e dei tempi evolutivi di culture etniche presenti e in alcuni paesi preponderanti. Jacob Burckhardt (Weltgeschictliche Betrachtungen) ci ricorda la differenza tra i popoli che storicizzano la propria storia e quelli che la sacralizzano: i primi si espongono a un’autocritica che ne accelera lo sviluppo; gli altri si nutrono dei propri miti fondazionali, inclini alla conservazione.
Bolivia docet: in 14 anni di governo (2005-2019) è corretto dire che il cocalero aymara Evo Morales ha aperto come mai prima il paese allo sviluppo. Trasportando così nella modernità, cioè alla visibilità culturale, all’uguaglianza giuridico-amministrativa e a un miglioramento senza pari delle condizioni economiche i 6-7 milioni di indigeni quechua, aymara e guaraní che costituiscono la grande maggioranza della popolazione. Ma poiché il suo modello macro-economico, pur con molte originalità, si colloca inevitabilmente all’interno dell’ordine capitalistico-occidentale, non ha potuto evitare scontri e dissidenze anche all’interno della stessa cosmogonia dei popoli originari.
Il pensiero indigeno transita infatti per una specie di doppia vita: il quotidiano, circoscritto da una materialità limitata alla sussistenza, è reso sopportabile solo dall’autonomia culturale, la quale però non risulta funzionale ai modi e ai tempi di un orizzonte dominato dalla postmodernità. E analoga è la duplicità di Evo Morales, che alla sacralità della coca trova una funzionalità di mercato attraverso la sua commercializzazione sub specie bevanda e medicinale; ma sulla sacralità della pachamama, dell’integrità della madre terra, viene a patti, in quanto la sacralità del prodotto interno lordo e della sua crescita richiede trivellazioni, dighe, centrali idroelettriche, strade…
L’ayllu (il sistema comunitario basato su vincoli familiari), le cooperative, le comunità sociali, gli stessi cocaleros dalle cui organizzazioni sindacali viene Morales e del quale costituiscono la base etnico-culturale, politica ed elettorale, entrano però in aperto contrasto con la sua politica quando la modernizzazione entra con ruspe e cemento armato nelle terre di loro proprietà. Reazione a ben vedere non molto diversa, del resto, da quelle che provoca la TAV in val di Susa, nel cuore della moderna supervelocità. Così che un pensiero remoto nel tempo e nello spazio (che ha permesso agli indios latinoamericani di resistere 500 anni a una emarginazione annientatrice) si ricongiunge sorprendentemente con brani di postmodernità a sua volta in crisi di modello economico e istituzionale.
Evo e il suo progetto, non esenti da limiti caratteriali del personaggio e di gestione, come accade in politica e con i suoi protagonisti, ne sono stati fortemente indeboliti. I nemici interni (le élite latifondiste delle provincie orientali, di sottocultura razzista, contrarie all’industrialismo centralista di Morales) ed esterni (Morales si è permesso di cacciare l’ambasciatore degli Stati Uniti dopo averne estromesso le imprese concessionarie di sfruttamenti minerari) hanno promosso e avallato il colpo di Stato che l’ha costretto alla fuga. Quest’esempio offre ipotesi di risposta approfondita tanto alla natura di alcune crisi delle democrazie latinoamericane quanto alle possibilità di restaurarle.
Se a questo punto è corretto vedere analogie tra la crisi boliviana e quella altrettanto evidente sebbene meno traumatica dell’Ecuador, completamente diverso è lo scenario cileno, ancorché fisicamente confinante e temporalmente coincidente. Qui, a distanza di mezzo secolo ma con le stesse connotazioni degli anni Settanta, a straripare nelle strade è un classico conflitto di classe tra lavoro e capitale. Perfino la griglia dei partiti in campo è riconoscibile, malgrado gli indubbi mutamenti (altro che “finita”: in America Latina la storia ha sinapsi e neuroni ossigenati e la memoria lunga). È Keynes contro Mises (e Kuznetz). La disputa è sui diritti e sulla redistribuzione del plusvalore.
Il massimo incrocio tra tutte queste tematiche, interne e internazionali, politiche, istituzionali, etniche, sociali, della sicurezza nazionale e individuale, emerge in Messico, di cui vediamo pulsare il cuore indio e la testa industriale. Il gigantismo brasiliano appare infatti nuovamente “sdraiato”, come recita la sua poesia patriottica, per non dire prostrato in una stasi provocata da shock istituzionali a catena, sfociati nel pericoloso autoritarismo neoliberista e dichiaratamente anti-ecologico di Bolsonaro. A sua volta il gigantismo argentino sta cercando di avviarsi sul cammino del risanamento economico-finanziario, ragionevolmente a salvo da rischi di sistema. È dunque a Città del Messico che affinità e diversità dell’America Latina trovano la declinazione di maggiore ampiezza, significato e visibilità.
La forza della corruzione esercitata dal narcotraffico in Messico l’ha fatta penetrare nel sistema produttivo, nella polizia, nelle forze armate, nella burocrazia amministrativa, nel controllo del territorio, fino a configurarsi come un concreto e micidiale contropotere dello Stato legale. Pochi paesi in America Latina sono a salvo dalla grande criminalità organizzata, ma sulla frontiera con gli Stati Uniti e i Caraibi la sua azione disgregatrice si manifesta con una virulenza senza confronto. È minore perfino il drammatico condizionamento che ne subisce la Colombia. Le disuguaglianze sociali ed economiche sono l’humus che ne favorisce la propagazione; un più intenso sviluppo culturale, sociale e politico, in una parolala democrazia partecipativa, l’unico antidoto efficace.
Il presidente Andrés López Obrador, populista di sinistra, intendeva sottrarre al narcotraffico gli emigranti latinoamericani che violenta e taglieggia per lasciarli avventurare nell’attraversamento clandestino della frontiera con gli Stati Uniti o arruola come carne da macello nelle sue bande armate. La sua idea era negoziare con Washington un flusso controllato come pure è stato possibile in alcuni periodi del passato. Ma sotto la concreta e immediata minaccia di un blocco alle merci messicane, Donald Trump lo ha costretto a rinnegare politiche migratorie, principi umanitari e progressivo contenimento strategico del narcotraffico. Solo l’invio di forti contingenti militari al confine con il Guatemala a chiudere ogni varco all’immigrazione dal Centroamerica ha riaperto al Messico i vitali commerci con gli Stati Uniti.
In una regione che la crescita complessiva degli ultimi due decenni non ha sottratto a frequenti e drammatiche emergenze, i corpi armati dello Stato, sebbene non più apertamente alternativi ai governi civili per le pessime prove fornite anche in termini di efficienza amministrativa nelle trascorse, innumerevoli e prolungate dittature, restano un fattore determinante per la stabilità politico-costituzionale. Tanto maggiore è quindi la rilevanza della loro formazione intorno a una cultura di convinto rispetto dei diritti umani e civili, che allo stato dei fatti resta al di sotto degli standard internazionalmente convenuti. Ricordiamo che la repressione delle recenti proteste di piazza in Cile, paese portato a esempio di ordinato sviluppo, è stata duramente condannata dagli organismi di difesa dei diritti umani delle Nazioni Unite.
Anche a ridurre questo tipo di deficit concorrerebbero politiche europee di ampio respiro, capaci di proiettarsi su tempi medio-lunghi, ben mirate all’interscambio, alla formazione professionale e a un piano d’investimenti joint-venture nell’industria di trasformazione delle materie prime minerali e alimentari. Una cooperazione europea concepita sia su carattere bilaterale sia coordinata da Bruxelles, costituirebbe senz’altro un’alternativa capace di stimolare l’evoluzione e irrobustire i sistemi politici e sociali, oltre che economici, della regione. Potrebbe, infine, configurare anche l’ambito in cui sperimentare nuovi modelli produttivi utili ed eco-sostenibili, dei quali cominciare a immaginare un codice-base.