L’incomprensibile Brasile. Sguardi (non convenzionali) dal profondo tupiniquim
O Brasil não é para principiantes, lo sanno tutti. La frase attribuita ad Antônio Carlos Jobim è più che mai attuale oggi, quando il paese tupiniquim (come talvolta viene indicato il Brasile, ricorrendo a un termine indigeno) vive una delle sue più drammatiche quanto incomprensibili crisi sociali dalla fine della dittatura militare.
L’impatto del Covid-19, sotto il profilo sanitario ed economico, devasta il nostro Brasile nel momento in cui il paese cercava di respingere gli effetti (ritardati) della crisi economica globale; quando affrontava un nuovo ciclo politico, sostenuto da un’espressiva volontà popolare, dopo anni di corruzione e instabilità; dopo aver vissuto l’impeachment di Dilma Rousseff, prima presidente donna, e l’arresto dell’ex-presidente Luis Inácio “Lula” da Silva, primo ex-operaio a esercitare il massimo mandato rappresentativo. Tutto ciò mentre il paese affrontava, quasi rassegnato, le più catastrofiche conseguenze dei cambiamenti climatici.
Senza riuscire davvero a reagire, in un quadro di difficile interpretazione anche per gli stessi analisti brasiliani, l’epidemia “sorprende” la popolazione su tre livelli emergenziali paralleli e molto diversi tra loro, come così è accaduto, dalla Repubblica in avanti, in tutti gli aspetti della complessità contemporanea:
- il livello di chi può – informarsi, proteggersi, isolarsi, curarsi;
- quello di chi non può – comprare i dispositivi di protezione individuale, godere di spazio sufficiente in casa e nel quartiere, accedere alle cure mediche;
- quello di chi non sa – cosa stia succedendo, perché non guarda la tv, non legge i giornali, non segue i social, perché non ne comprende le informazioni o, più semplicemente, perché nessuno lo ha informato.
Come se non bastasse, a complicare le cose va in scena lo scontro politico ed economico tra governatori e presidente, tra presidente e ministri, tra questi e il potere giudiziario, tra settori imprenditoriali e mondo scientifico.
In questo quadro articolato, tre sguardi non convenzionali, “da dentro” il profondo tupiniquim (onde evitare le illusioni ottiche prodotte dai cosiddetti brasilianisti), ci permettono di scrutare altrettante dinamiche fondamentali, che stanno stravolgendo la società brasiliana: la rarefazione della diversità culturale, la crisi del sistema democratico e il ruolo dei militari e, naturalmente, la drammatica congiuntura economica, sempre più a rischio default.
Obiettivo? Provare a capire come e perché, nel Brasile di Bolsonaro, tutto sia diventato ancora più maledettamente complicato.
Il prosciugamento della cultura
Cominciamo dall’arcinota diversità culturale brasiliana perché, da quando Jair Messias Bolsonaro siede alla Presidenza della Repubblica, questa sta vivendo un processo che vorremmo definire di “prosciugamento”.
In realtà, tutto è iniziato nel governo precedente – quello di Michel Temer, assurto all’apice dopo l'impeachment di Dilma Rousseff – quando il Ministero della Cultura veniva incorporato in quello della Pubblica Istruzione. Dopo le proteste del settore artistico, l'ex-presidente era tornato sui suoi passi; ma Bolsonaro non ci ha pensato due volte, mettendo in sicurezza il dossier Cultura, riducendolo a una Secretaria Especial, sotto l’egida prima del Ministero della Cittadinanza e poi del dicastero del Turismo. In poco più di un anno di mandato, quattro cambi di direzione. La penultima titolare è stata Regina Duarte, attrice veterana delle telenovelas di Rede Globo (soprannominata, in modo un po’ machista, Namoradinha do Brasil, la fidanzatina del paese, per via dei ruoli di giovane e indifesa nei quali ha recitato). Regina era succeduta al drammaturgo Roberto Alvim, esautorato dal governo dopo aver pronunciato un discorso pubblico in cui citava frasi del ministro della propaganda nazista Joseph Goebbels (per inciso, dopo aver lasciato l’incarico – a causa della fortissima pressione pubblica – Alvim ha attribuito la responsabilità delle sue dimissioni a una "cospirazione satanica"). Poco dopo, la stessa Regina Duarte è stata allontanata, questa volta senza conflitti apparenti (anche se si parla di sabotaggi interni, causati da un non perfetto allineamento dell’attrice su argomenti di genere). Viene sostituita da Mario Frias, attore televisivo poco conosciuto ma, pare, molto apprezzato dal presidente.
Tanta instabilità e un budget inferiore allo 0,5% del PIL: ma non ci si confonda, perché la Cultura è considerata strategica nella crociata morale del governo di ultra-destra. La Secretaria Especial, infatti, agisce sempre di più di concerto con quanto realizza un altro ministero, quello della Donna, della Famiglia e dei Diritti Umani la cui titolare, Damares Alves, avvocata e pastora evangelica, è una nota attivista anti-aborto e forte oppositrice della parità di genere.
E poi, non è un caso se il cambiamento più importante introdotto dal governo per il mondo della cultura è avvenuto con la riforma della legge sugli incentivi fiscali, che nei decenni precedenti aveva permesso di sviluppare migliaia di iniziative di pregio. Oltre a ridurre il massimale della raccolta fondi tramite esenzioni fiscali, la commissione valutatrice dei progetti è stata profondamente rinnovata, portandola ad avere una significativa maggioranza di membri ultra-conservatori.
Il progressivo prosciugamento è avvenuto anche con la sospensione del sostegno pubblico a importanti centri di produzione culturale, come il gruppo di danza Corpo e il gruppo teatrale Galpão. La stessa Petrobras, il gigante petrolifero di proprietà statale che finanziava cospicuamente le attività culturali del paese, ha ridotto le vitali risorse che sostenevano il fragile settore cinematografico nazionale. Senza dimenticare i dirigenti della cultura considerati ostili (dai funzionari del Museu de Belas Artes di Rio de Janeiro a quelli della Casa de Rui Barbosa), che sono stati rimossi e sostituiti con l’obiettivo di “eliminare l'ideologia di sinistra”. Un inedito assoluto, se si pensa che queste istituzioni sono rimaste indipendenti persino durante il regime militare, tra il 1964 e il 1985.
L’attacco più pesante alla diversità socio-culturale, tuttavia, ha interessato quel mondo di organizzazioni volte a preservare le minoranze del paese: neri, indigeni, movimento LGBTQ, abitanti delle periferie e delle favelas. Un esempio eclatante riguarda quanto avvenuto alla Fundação Palmares, istituzione coeva alla Costituzione del 1988, che promuove la cosiddetta “cultura afro-discendente” ed è intitolata al movimento di lotta e resistenza anti-schiavista del Quilombo dos Palmares (una comunità libera nata nel periodo coloniale, divenuta nei secoli icona resistente della cultura negra afro-brasiliana). La nomina del suo presidente, il giornalista Sérgio Camargo anch'egli afro-discendente, era stata impugnata dalla giustizia di primo e secondo grado a causa di alcune sue precedenti dichiarazioni affidate ai social e considerate incostituzionali (“non c’è razzismo in Brasile”, “la schiavitù è stata benefica per i neri”). Nei primi mesi del 2020 in terzo grado di giudizio l’impugnazione è stata annullata e il Presidente della Repubblica ha così potuto confermare l’incarico. Forte di questa legittimazione, Camargo ha usato ancora una volta i social per dirigersi in tono minaccioso verso il mondo rap brasiliano, per dire che la fondazione avrebbe finanziato progetti solo "a seguito di un rigoroso controllo delle vite passate" degli artisti. L’avvertimento di Camargo è stato inequivocabile: non saranno accettate proposte che "percorrano le strade della criminalità, facciano apologia all’uso di droga e alla promiscuità sessuale”. Ancora una dimostrazione di perfetta sintonia con il tono evangelizzatore della morale e dei buoni costumi della cultura bianca, tradizionale e familista che domina il paese.
Dietro questa "pulizia ideologica" c'è senz’altro il nome di Olavo de Carvalho, eminenza grigia del cerchio magico della famiglia Bolsonaro. Olavo si definisce filosofo, anche se in passato si guadagnava da vivere facendo oroscopi. Da molti anni vive in Virginia, negli Stati Uniti, ma mantiene stretti rapporti con i figli del presidente. Uno dei suoi più ardenti discepoli è il ministro degli esteri, Ernesto Araújo, assurto alla carica non senza sorpresa (e timore) del corpo diplomatico che lavora all’Itamaraty, il palazzo di Brasilia dove ha sede il Ministero degli Esteri. Araújo non si è mai distinto nell'istituzione ma diffonde convintamente “il verbo” di Olavo soprattutto verso i settori più colti dell’opinione pubblica, grazie ai buoni rapporti che vanta con i potentati dell’informazione: dalla Folha all’Estado de São Paulo passando per il Grupo Globo, le cui famiglie proprietarie, da decenni, mantengono relazioni privilegiate con gli ambienti di Brasilia.
Così, sostenuto dai “poteri forti” e dai milioni di elettori che frequentano le chiese neo-pentecostali (uno studio IBGE prevede che, tra un decennio, i fedeli cattolici diventeranno una minoranza in Brasile), il governo di ultra-destra di Messias Bolsonaro agisce come un rullo compressore sull'eterogeneità delle innumerevoli voci di un paese di oltre 200 milioni di abitanti, caratterizzato storicamente da forti differenze nelle abitudini e nei costumi (tanto che spesso si parla di diversi Brasiis, non certo di un solo Brasil).
Di questo passo, l’azione politico-culturale bolsonarista essiccherà ciò che resta della biodiversità identitaria che ha dato forma e senso al paese, in nome di un'egemonia in cui dominano i valori del fondamentalismo religioso, il binarismo di genere e le posizioni anti-scientifiche.
Eu sou o Estado
Se, nessuno in Brasile si spinge a fare pronostici quando si tratta di fare previsioni sul futuro del governo Bolsonaro, possiamo almeno ragionevolmente chiederci: e i militari, da che parte stanno? Ma anche questa è una domanda non facile, anche perché lo studio del comportamento politico delle forze armate è un esercizio che sembra non andare più di moda, nemmeno nelle università brasiliane: da quando hanno smesso di “dare le carte” (dal 1985 erano tornati in caserma e avevano lasciato il potere) sono diventate una rarità le indagini affidabili sull'argomento. Per questo è difficile sapere esattamente cosa pensino, quanto apprezzino davvero la democrazia.
Quindi, la domanda rimane no ar, per aria, eterea. Anzi, diventa un vero e proprio dilemma angosciante: la maggior parte dei militari ha la compostezza di un funzionario pubblico come il generale Santos Cruz, che ha subito preso parte all'avventura bolsonarista ma non è riuscito a restare nemmeno sei mesi al governo? Oppure, al contrario, la maggior parte dell'alto comando ha la mentalità rude e sprezzante del generale Augusto Heleno, che ricorda uno di quegli ufficiali latinoamericani della fine degli anni Sessanta?
Forse lo sa il presidente? Jair non è di certo un principiante in politica: vecchia conoscenza del cosiddetto "basso clero" della Camera dei Deputati (cioè di quel gruppo di parlamentari che non ha mai avuto un ruolo primario nelle decisioni politiche centrali per il paese), la sua intenzione – da candidato – era di aggravare il "corto circuito" in atto nel già precario stato di salute del sistema politico brasiliano. Promessa mantenuta: forte dei 27 anni trascorsi da parlamentare a Brasilia, Bolsonaro sa quali sono i due principali talloni d'Achille della nostra Repubblica. E ogni giorno – metodicamente – li colpisce. Da un lato il Parlamento che soffre, come quasi tutti i parlamenti del mondo, di una forte crisi rappresentativa: poco identificati con la maggior parte dei brasiliani, sia la Camera sia il Senato oggi sono espressione di quasi tre dozzine di partiti. Una frammentazione che ha l’unica ed esclusiva funzione di organizzare meglio “l’assalto alla diligenza”, la distribuzione a pioggia delle risorse del bilancio dello Stato. Dall’altro lato il potere giudiziario: uno dei più costosi, se non il più costoso sistema giudiziario del pianeta. Lenti e con una produttività molto bassa, gli uomini della giustizia brasiliana vivono in una sorta di “isola della fantasia”. Da quando hanno iniziato a essere trasmesse in diretta televisiva, le sessioni del Supremo Tribunal Federal (STF) hanno rivelato il loro strano mondo, dove si decidono i destini del paese: con stipendi e privilegi che ricordano gli ultimi giorni di Maria Antonietta in Francia, è difficile aspettarsi da loro una risposta alla grave crisi politica che stiamo affrontando. È grazie a questa situazione che prolifera l'estrema destra populista che oggi governa il paese.
Bolsonaro, coerentemente, porta avanti le sue idee: partecipa alle manifestazioni di piazza che in tutto il Brasile negli ultimi mesi chiedono la chiusura del Parlamento e del Supremo. Il giorno successivo minimizza, spiega l'inspiegabile, mentre Parlamento e il Tribunale Supremo Federale semplicemente non reagiscono.
La sua reiterata, esplicita e rivendicata sottovalutazione della pandemia Covid-19, con gli effetti devastanti che abbiamo visto, riflette le premesse e le conseguenze politiche delle sue scelte solo apparentemente incomprensibili. Con l’epidemia in atto, Bolsonaro ha cambiato due volte il ministro della sanità ma poi non è più riuscito a trovare un medico che si prendesse la responsabilità di sottoscrivere le sue folli decisioni; così, ha deciso di nominare ad interim un generale ex-paracadutista, dando un forte segnale di come le forze armate siano disposte a sostenere quella che molti oppositori ormai chiamano la “politica genocida” del governo. La resistenza dei governatori di tutti gli Stati federati del paese non è riuscita a fermare questa folle corsa verso il baratro, segnata da intenti manipolatori persino sui numeri del contagio, come accaduto con l’oscuramento del conteggio delle vittime fatali di Covid-19 nel paese.
Quale sarà l’esito di questa drammatica novela latinoamericana? Impossibile prevederlo, appunto. Certamente desta molta preoccupazione il fatto che il Brasile abbia, in proporzione, più militari-ministri che il suo vicino Venezuela, dove come tutti sanno le forze armate hanno abbandonato da tempo l’atteggiamento neutrale per trasformarsi in garanti della permanenza al potere di Nicolás Maduro.
In piena epidemia, commentando l'ennesima crisi interna al suo governo e distogliendo ancora una volta l'attenzione dei brasiliani dal problema centrale, le migliaia di morti per Covid-19, Bolsonaro ha citato Napoleone: “finché il nemico fa mosse sbagliate, lo lascio fare. In Brasile, secondo me, il movimento è sbagliato. Ci si preoccupa solo del problema del virus. E della disoccupazione, chi se ne occupa?”. Creando (un’altra) falsa contrapposizione tra economia e salute pubblica, procede sicuro Jair, praticamente incontrastato, forte di quasi un terzo di consensi incondizionati. Eu sou o Estado, “Io sono lo Stato” sembra dire, tra le righe, l’erudito Bolsonaro. Che forse si sente un po’ Luigi XIV anche se in realtà, a differenza del Re Sole, non sa ancora fino a quando i militari lo asseconderanno.
Il Brasile sull'orlo del caos economico
Nonostante sia molto determinato, sicuro di sé in politica e sul piano dei valori culturali, quando parla di economia il presidente sa che entra in un campo a lui ostile, al punto da ammettere pubblicamente, senza imbarazzo e in più occasioni, di non capirne granché…
Durante la campagna presidenziale aveva perciò assicurato tutti garantendo che avrebbe posto rimedio alle sue carenze conoscitive, attraverso l’arruolamento di uno staff tecnico molto qualificato. Purtroppo le sue lacune non gli hanno concesso scampo, nemmeno quando si è trattato di scegliere i nomi della squadra. La politica economica del governo di Bolsonaro è infatti tutta incentrata sul suo ministro dell'Economia Paulo Guedes, che ha addirittura ottenuto lo status di "super-ministro" grazie alla fusione del suo portafoglio con gli ex-dicasteri della Pianificazione e dell’Industria e Commercio Estero. Nei governi precedenti il corposo e delicato dossier dell’economia brasiliana – grande, instabile e a costante rischio inflazione – era gestito da un triumvirato formato dai reggenti di quei tre ministeri. Oggi, Paulo Guedes regna da solo.
Il ministro, con un PhD ottenuto all'Università di Chicago – il più rinomato tempio del liberalismo mondiale – è un tenace difensore di una particolare categoria di liberalismo ultraortodosso: quella che si ispira alla politica economica del Cile degli anni Novanta, figlia legittima del dittatore Pinochet. Durante il regime infatti Guedes era un giovane professore all'Università di Santiago, osservatore entusiasta dell’opera prima dei Chicago boys: il più grande programma di privatizzazione planetaria, che coinvolse in primis la previdenza sociale e la sanità pubblica cilene.
Al suo rientro in patria fu accolto tiepidamente dall’accademia, non riuscendo a entrare – come avrebbe voluto – nelle più prestigiose università brasiliane. Guedes se ne risentì e decise di fare carriera come amministratore di fondi di investimento; da allora, il risentimento è diventato una parte costitutiva della sua personalità irascibile.
Sta di fatto che questo non brillante economista è riuscito a convincere il candidato Bolsonaro (il quale aveva manifestato fino ad allora vaghe e imprecise idee vicine al nazionalismo economico) che un programma di privatizzazioni spinte, combinato allo smantellamento del sistema di assistenza e promozione sociale promosso dal Partito dei Lavoratori di Lula e Rousseff, avrebbe trasformato il Brasile in una destinazione ambita dal capitale internazionale. Parallelamente suggeriva un rigoroso aggiustamento dei conti pubblici, che avrebbe poi di fatto realizzato con le riforme della previdenza sociale e del mercato del lavoro, puntando a migliorare il rating di affidabilità del paese.
A gennaio 2019, con l’insediamento di Bolsonaro e Guedes, sono iniziati i tagli a cominciare dagli investimenti pubblici: migliaia di cantieri sono stati fermati in tutto il paese, mentre alcuni programmi di stimolo economico, che avevano avuto enormi e positivi impatti sociali, sono stati interrotti. È stato così per Minha Casa, Minha Vida – “La mia casa, la mia vita”, edilizia residenziale pubblica destinata a famiglie di bassissimo reddito – e per il Programma di Accelerazione della Crescita, che prevedeva investimenti in infrastrutture strategiche. L'economia brasiliana non sta reggendo un urto così travolgente: già provata tra il 2015 e il 2016 dal caos politico provocato dal “golpe” parlamentare che ha rovesciato la presidente Rousseff, ha sofferto molto nei due anni di instabilità che ne sono seguiti con il governo Temer.
Nel primo semestre 2020, con il blocco quasi totale imposto da mesi di lockdown, un'economia da tempo affannata sembra prossima a gettare definitivamente la spugna: nel 2015, il PIL era sceso del 3,8%, nel 2016 del 3,3%; nei due anni successivi, sotto il governo Temer, era cresciuta dell’1,3% annuo; nel 2019 la crescita era stata di appena l’1,1% ma per il 2020 la previsione è che il calo del PIL superi il 7%. Sarà, dunque, il sesto anno consecutivo di scarsa o negativa crescita economica. Ma la cosa più grave è che il paese sembra aver perso la capacità di reagire, anche perché il disavanzo primario, iniziato sotto il governo Temer, ha provocato l'esplosione del debito pubblico, che nel 2019 ha superato i 1000 miliardi di dollari (erano 700 miliardi nel 2015), ovvero il 78,4% del PIL.
È in queste condizioni disastrose che il Brasile affronta il 2020, l'anno in cui il Covid-19 non solo abbatterà tutte le economie mondiali, ma sarà inesorabile contro quelle che non sapranno reagire. Bolsonaro e Paulo Guedes sicuramente non sanno che fare: la mancanza di un piano di investimenti infrastrutturali coerenti, l'assenza di programmi di sostegno finanziario per le imprese, i tassi di interesse stratosferici, la contrazione del credito, la crescita della disoccupazione e il calo dei consumi delle famiglie sono variabili che producono un circolo economico depressivo che, molto probabilmente, durerà a lungo.
Una congiuntura così rovinosa potrebbe portare all'apertura di un processo di impeachment contro il Presidente, forse l'unico modo per evitare un probabile default.