Repubblica Dominicana – Haiti. Due paesi, una isola, nello scenario dell’ultimo decennio

Vanna Ianni
Già docente di Sociologia economica, Università degli studi di Napoli l’Orientale, e di Sociologia politica, Universidad Autónoma de Santo Domingo.

Per Repubblica Dominicana come per Haiti, gli ultimi dieci anni costituiscono un periodo caratterizzato da mobilitazioni e rivendicazioni di carattere principalmente politico-sociale. In questo, i due paesi caraibici non si discostano dallo scenario dell’America latina degli stessi anni. È nelle dinamiche come nelle domande che pongono, dove tali proteste differiscono tra loro e, più in generale, da quelle degli altri paesi latinoamericani.

Denuncia della corruzione e dell’impunità dilaganti, rifiuto del clientelismo, critica della continuità nel potere del partito che governa interrottamente da 16 anni, sono le motivazioni che portano un ampio numero di dominicani a scendere in strada, a chiedere un cambiamento. L’evento “scatenante” è, in questo caso, il dossier Odenbrecht, i versamenti corruttivi pagati dall’impresa brasiliana a politici e funzionari di vari paesi, fra cui Repubblica Dominicana. Il 22 gennaio 2017, per la prima volta anche fasce della classe media partecipano alla protesta che prenderà il nome di Marcha Verde. È l’avvio di un movimento che mira ad unire associazioni ed organizzazioni diverse, urbane e rurali, alternando nel tempo manifestazioni nazionali, regionali e locali. Tre anni dopo, nel gennaio 2020, l’interruzione del processo elettorale riguardante il rinnovo delle cariche locali, come conseguenza del non funzionamento del sistema di voto automatizzato introdotto per la prima volta, dà nuovo impulso alle proteste. Anche in questo caso il movimento conserva il suo carattere eminentemente pacifico e la composizione, in gran parte, giovanile.

Sono numerose le ragioni che concorrono a spiegare le caratteristiche di tali mobilitazioni. Dagli anni duemila Repubblica Dominicana è ormai un paese predominantemente urbano, con una economia liberalizzata e aperta, e importanti flussi migratori, diretti verso l’esterno (principalmente Stati Uniti) e verso l’interno (principalmente da Haiti). La crescita economica non cancella, però, la questione della povertà e delle diseguaglianze ed è soprattutto il sistema politico a registrare un importante processo di indebolimento. Durante l’ultimo decennio, in particolare, interessi individuali e gruppali, reti corruttive con rilevante presenza di vere e proprie componenti criminali, lo penetrano provocando una diminuzione significativa della fiducia nella democrazia e nei partiti politici. Questi, con poche eccezioni, finiscono per occupare un’area grigia che rende irrilevanti e mobili le differenze che intercorrono tra loro. Contemporaneamente, il clientelismo arriva a permeare anche gli attori sociali (R. Espinal, J. Morgan, J. Hartlyn, Sociedad civil y poder político en República Dominicana, in “America Latina Hoy”, n. 56, pp. 37-58, 2010; V. Ianni, Actores y conflictualidad social. República Dominicana años 80, República Dominicana, Universidad Autónoma de Santo Domingo, 2015).

A questa presenza diffusa della corruzione e del clientelismo sono da aggiungere sia l’apparizione, nel corso del decennio, dell’assistenzialismo come strategia adottato del partito allo guida del governo per ottenere il consenso delle fasce più deboli, sia l’apporto importante delle rimesse ai bilanci delle famiglie più povere. È questa particolare configurazione politica e sociale a spiegare la debolezza dei movimenti dominicani, pur in un periodo di profondo malessere sociale, la loro ridotta capacità di produrre cambiamenti. L’assenza di violenza sia nelle manifestazioni sia nella risposta ad esse rivela la stessa origine.

D’altra parte, la frammentazione che indebolisce gli attori sociali trova radici profonde e lontane nella stessa struttura delle relazioni di produzione che continuano a registrare una forte presenza non solo dell’informalità ma anche di una forza lavoro segnata dall’insicurezza e instabilità e priva, in gran parte, dei diritti politici e sociali. Quest’ultima è, ancora oggi, principalmente haitiana: nel passato attiva nelle piantagioni di canna da zucchero, oggi nell’edilizia, nell’industria alimentare, nel lavoro domestico. Un legame sbilanciato unisce la parte orientale e quella occidentale dell’isola dagli anni dell’occupazione nordamericana di Haiti (1915-1934) e della Repubblica Dominicana (1916-1924). È da allora che gli interventi modernizzanti promossi dagli Stati Uniti creano tra i due paesi una circolazione asimmetrica di uomini e risorse che le politiche neoliberali degli ultimi anni non scalfiscono. L’asimmetria che impoverisce Haiti si accentua quando, negli anni Novanta, Haiti diviene un mercato importante per le industrie dominicane senza che un apprezzabile flusso di merci arrivi a scorrere anche in direzione opposta. Questo squilibrio nei rapporti è accompagnato in Repubblica Dominicana da un forte sentimento antihaitiano, alimentato ancora oggi dai gruppi di destra più retrogradi. Haroldo Dilla parla, al riguardo, dell’esistenza di un unico “sistema socioeconomico diseguale e molto conflittuale” (H. Dilla, República Dominicana: cuando la xenofobia se institucionaliza, in “Nueva Sociedad”, n. 284, pp. 94-104, 2019), che incide sugli assetti strutturali di entrambi i paesi.

Da parte sua, Haiti presenta oggi, come nei decenni passati, indicatori economici, sociali, politici, più bassi di quelli di ogni altro paese dell’America Latina, La capacità dello Stato di rispondere ai bisogni dei cittadini si rivela nulla, assumendo le caratteristiche proprie di uno “stato fallito”. In effetti la transizione democratica, avviata nell’ormai lontano 1986, appesantita dal fatto di non essere una “ridemocratizzazione”, di non poter appoggiarsi su antecedenti democratici, si manifesta dall’inizio difficile e scandita da continue interruzioni e rotture. Nel 2020 continua a presentarsi bloccata, segnata da tensioni e conflitti, che sanciscono il peso decisivo della “determinazione esterna”, la dipendenza sempre maggiore dall’aiuto internazionale. In tale scenario politico e sociale il Core Group, formato al termine della missione militare MINUSTAH (di cui fanno parte i rappresentanti del Segretario generale delle Nazioni Unite e della OEA nonché gli ambasciatori di Stati Uniti, Unione Europea, Canada, Francia, Spagna, Germania e Brasile), gioca un ruolo determinante nella definizione degli assetti e delle politiche di Haiti. Il primo paese a conquistare l’indipendenza in America Latina (1804), la prima repubblica nera del mondo, ha avuto da sempre un cammino segnato da gravi lacerazioni, instabile e drammatico. Nazione, non Stato, diceva Gerard Pierre Charles.

Le proteste e le mobilitazioni delle masse haitiane non sono mancate in tutti gli anni interminabili di una democratizzazione difficile e interrotta. La repressione è stata sempre violenta e molte ne sono state le vittime (le prime elezioni realmente libere, nel 1987, furono travolte dal sangue). Anche oggi tale violenza è drammaticamente presente e la forte mobilitazione sociale continua a presentarsi accompagnata da una debolissima capacità di organizzazione e strutturazione. I partiti, frammentati e personalistici, manifestano una analoga, minima forza di aggregazione. La situazione cambia poco con la nascita, anche ad Haiti, negli ultimi anni, di gruppi di giovani, particolarmente attivi nelle reti sociali, come i “Petrochallengers” e i “Nopu Pap Dòmi” (“Non dormiamo”). Sono proprio i “Petrochallengers” ad avviare, nel settembre 2018, l’ultimo ciclo di proteste, messo in moto dallo scandalo suscitato dalla scoperta della gestione corrotta dei fondi di Petrocaribe (programma concepito da Chávez che prevede l’accesso al petrolio a prezzi preferenziali per i paesi caraibici) (A. Antonin, El estallido haitiano, in “Nueva Sociedad”, luglio, 2018, ). Lo scandalo, sommandosi a quello dell’uso personalista e corrotto dei fondi ricevuti in occasione del terremoto che nel 2010, ha colpito duramente il paese ed è arrivato a lambire lo stesso Presidente Jouvenal Moïse (Sabine Manigat, Tomar en serio a Haiti. Intervista di Pablo Stefanoni in “Nueva Sociedad”, marzo, 2019). Oggi tutte le forze d’opposizione esigono la rinuncia del Presidente, eletto con il 55,6% dei voti ma con una partecipazione del 21%, (A. Antonin, Radiografía de la crisis haitiana, in “Nueva Sociedad”, dicembre, 2019). Nonostante l’unanimità dell’opposizione nel porre tale domanda di rinuncia e l’impatto di un movimento che, esteso a tutto il paese, riesce nel febbraio 2019 a “fermarlo” per 10 settimane, il Presidente non ha rinunciato, forte dell’appoggio degli attori esterni, in particolare degli Stati Uniti. Privo di Parlamento (dal 7 febbraio inoperante non essendo state realizzare le lezioni legislative previste per ottobre del 2019), attraversato da continui conflitti interni ai poteri dello Stato e alla stessa opposizione, sempre al bordo di gravi crisi alimentari e di fenomeni ambientali catastrofici, il paese appare “bloccato” in un presente privato di futuro.

Al riguardo, non è possibile non osservare quanto sarebbe auspicabile sollecitare l’Unione Europea a dare sostegno alle spinte aggregative presenti nel paese, cosi come alle domande di apertura di una fase di transizione che, seguendo i dettami costituzionali, convochi nuove elezioni parlamentari e presidenziali chiudendo così la fase attuale di stallo. L’assenza dell’Italia dal Core Group sconsiglia una presa di posizione diretta ma non giustifica la disattenzione e il silenzio.

In tale congiuntura di instabilità per entrambi i paesi, i primi casi di Covid-19 arrivano in Repubblica Dominicana nel febbraio/marzo 2020, e poco dopo ad Haiti.

All’inizio di giugno, Repubblica Dominicana presenta gli indici di contagi e decessi peggiori di tutta l’area dei Caraibi, probabilmente come conseguenza della sua maggiore apertura verso l’esterno. Tuttavia, la fase più acuta della crisi sembra superata e il governo, che ha decretato molto presto la chiusura della maggior parte delle attività, il coprifuoco notturno e misure di appoggio a lavoratori e imprese, comincia progressivamente ad aprire e a riattivare il paese. L’avvio di tale riapertura lascia ancora aperte, però, le domande sull’andamento futuro di Covid-19 e, soprattutto, sul suo impatto sull’occupazione e sulle imprese, visibile completamente solo dopo che saranno venute meno le misure di sostegno adottate. Il governo, che dall’inizio ha fatto un uso politico di Covid-19 cercando di frenare la perdita di consenso di cui soffre, suscita critiche e condanne ma nessuna protesta di peso. Il prossimo 5 luglio rappresenterà, però, un momento particolarmente delicato per tali tensioni, essendo state spostate a tale data le elezioni presidenziali previste per il passato 17 maggio. A quel punto, se esse non potranno svolgersi, la crisi sanitaria e quella politica potrebbero saldarsi, creando una situazione del tutto inedita e non prevista dalla Costituzione, di “vacanza” della Presidenza. Si aprirebbe allora uno scenario in cui instabilità e proteste si acuirebbero in maniera preoccupante.

Anche ad Haiti, all’individuazione dei primi casi del virus, il Presidente ha preso misure analoghe a quelle dominicane. Nonostante le preoccupazioni espresse dalla comunità internazionale circa la presenza di Covid-19 in un paese privo di strutture sanitarie e con una gran parte della popolazione senza accesso all’acqua e sempre esposta a crisi catastrofiche, la situazione è rimasta finora sotto controllo, con una diffusione dei contagi meno estesa di quella dominicana. C’è da notare che anche qui la presenza di Covid-19 ha finito per creare un quadro che in certo qual modo ha contribuito a rafforzare la figura del Presidente. Se la sua evoluzione e il suo impatto economico e sociale rimangono, però, ancora incerti, è la gravità del quadro politico a rimanere al centro dell’attenzione nazionale e internazionale, a continuare ad essere decisivo in quanto a possibilità di trovare risposta alle molte crisi che lacerano il paese.

Questa breve presentazione dei processi dominicani ed haitiani dell’ultimo decennio permette di avanzare alcune considerazioni di carattere più generale.

In primo luogo, rende chiara l’urgenza di un ripensamento dei modi e dei tempi di esercizio dell’assistenza e dell’aiuto internazionale. Le condizioni attuali di Haiti evidenziano la sconfitta di una comunità internazionale che esercita la sua tutela diretta sul paese da circa venti anni, e non ha mai mancato di intervenire nelle congiunture più difficili del passato. Una conferma di limiti gravi, già emersi in altre situazioni e in altre aree geografiche.

Da parte sua, il carattere marcatamente politico-sociale delle rivendicazioni avanzate e la mancanza di risposte, ad Haiti come in Repubblica Dominicano, invitano a cogliere quanto diversificato sia lo scenario latino-americano e quanto erronea sarebbe una sua omogeneizzazione. Sollecitano pertanto a costruire, rafforzare, diversificare reti - di ampiezza e composizione diverse - di interazione, dibattito, confronto, supporto reciproco, decisive nel caso haitiano, spesso ai margini di scambi e analisi, ma utili anche in quello dominicano, paese aperto verso l’esterno ma in fondo imbrigliato in una modernizzazione che rischia di travolgerlo.

In una fase di incertezza, instabilità e crisi, aprire un laboratorio a vocazione continentale di analisi e sperimentazione, di ripensamento delle politiche neoliberiste, di ricerca comune di forme nuove di partecipazione e governance, non potrebbe che contribuire a dare all’intera America Latina orizzonti più liberi.

17 Gennaio 2020
di
CeSPI (articolo introduttivo)