Decifrare la posizione iraniana sul nucleare
Lunedì 25 aprile le autorità iraniane hanno chiesto un incontro il prima possibile e in presenza in merito all’accordo nucleare, noto con l’acronimo JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action). Il programma nucleare iraniano è ancora in discussione a Vienna tra la delegazione iraniana e i 5+1 (i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu più la Germania). Il team di Teheran punta alla rimozione delle sanzioni imposte da Washington nel 2018, quando l'ex presidente repubblicano Donald Trump decise di ritirare la firma statunitense dal patto sul nucleare firmato nel 2015 durante l’amministrazione del democratico Barack Obama. Dopo il ritiro unilaterale di Trump nel 2018, l’Europa si è dimostrata incapace di far fronte agli impegni presi con Teheran, principalmente a causa del timore di banche e imprese del vecchio continente per le sanzioni secondarie del Tesoro statunitense.
Sono due le notizie su cui vale la pena soffermarsi. La prima è la dichiarazione dell’11 aprile del portavoce del ministero degli Esteri iraniano Saeed Khatibzadeh. Riferendosi ai colloqui in corso a Vienna, ha affermato: «Non sappiamo se raggiungeremo un'intesa perché gli Usa non hanno mostrato la determinazione richiesta». Ha poi aggiunto: «Gli americani non sono arrivati a un punto che mostri il loro impegno». E ha ribadito che i delegati iraniani nella capitale austriaca non cederanno rispetto alle linee rosse dettate dal Leader Supremo Khamenei: «Se avessimo voluto oltrepassarle avremmo trovato un accordo mesi fa».
La seconda notizia, del giorno successivo, riguarda la presentazione da parte di Mohammad Eslami, il capo dell'Organizzazione per l'energia atomica dell'Iran, di un piano ventennale per lo sviluppo del programma nucleare di Teheran. Raggiungere una produzione da 10mila megawatt per generare elettricità e la costruzione di una centrale da 360 megawatt, progettata da scienziati iraniani, a Darkhovin (sudovest dell’Iran) sono tra gli obiettivi del piano. «Dovremmo prendere queste misure importanti per fare progredire la tecnologia nucleare e continuare in modo determinato a fare ricerca nel campo della tecnologia nucleare pacifica» ha affermato Eslami.
Un passo indietro: la Storia per decifrare il presente
Fu lo scià, nel 1957, a firmare con Washington un accordo di cooperazione nucleare «al servizio della pace». Nel 1970 Teheran aderì al Trattato di non proliferazione nucleare. Quattro anni dopo, l’Iran e l’Egitto lanciarono un appello per fare del Medio Oriente una zona priva di armi di distruzione di massa. Nel 1974 Muhammad Reza Shah si rese conto della necessità di fonti di energia alternative e comprese che il petrolio non doveva essere sprecato per produrre elettricità. Molti paesi investivano nel nucleare e, con l’aumento del prezzo del barile, all’Iran non mancava la liquidità. In quattro anni lo scià spese otto miliardi di dollari con l’obiettivo di ottenere dalle centrali nucleari, nel giro di vent’anni, un quarto dell’elettricità necessaria. Ne furono progettate una ventina: quattro sarebbero state costruite con i tedeschi e due con i francesi. Il contratto per quella di Darkhovin, da due miliardi di dollari, fu firmato nell’ottobre 1977 con la francese Framatone. L’Iran acquisì anche partecipazioni all’estero per l’approvvigionamento e l’arricchimento dell’uranio e, ancora oggi, detiene il 10% delle azioni della francese Eurodif, a cui commissionò la costruzione di una fabbrica per l’arricchimento dell’uranio del valore di un miliardo di dollari. Ma Teheran non può disporre di questa partecipazione a causa del veto dell’Eliseo.
Perché l’Iran non vuole cedere
Con l’accordo nucleare firmato nel luglio 2015 le autorità della Repubblica islamica avevano abdicato alla propria sovranità nucleare, ma a malincuore per quattro motivi che restano tuttora validi. E quindi i negoziatori di Vienna dovrebbero tenerne conto.
Il primo motivo ha a che vedere con la Storia: l’Iran di oggi si ritiene erede dell’impero persiano di Ciro il Grande e, a differenza degli altri paesi della regione, non è mai stato colonia. In quest’ottica il nucleare è una questione di prestigio, interno e internazionale. Ayatollah e pasdaran vorrebbero essere riconosciuti come potenza regionale, sulla scia di quanto era riuscito a ottenere lo scià Muhammad Reza Pahlavi (1941-79) che acquistava armi dagli Stati Uniti, nazione con cui i rapporti sono ostili dai giorni del sequestro degli ostaggi nell’ambasciata americana (4 novembre 1979). La corsa al nucleare della Repubblica islamica è quindi la continuazione della militarizzazione iniziata dalla dinastia Pahlavi. Direttore del programma nucleare durante la monarchia, Akbar Etemad ha osservato come «Adesso, con India, Pakistan e Israele dotati dell’atomica, lo scià avrebbe sicuramente dato ordine di perseguire il nucleare a scopi militari».
Il secondo motivo che spiega la corsa al nucleare è la percezione di una reale necessità strategica. A vantare l’atomica sono India e Pakistan, ex colonie britanniche in tensione permanente tra di loro al punto da minacciare l’uso delle rispettive testate. Armi presenti anche nell’arsenale di Israele e della vicina Russia. Senza contare le centrali in costruzione e in fase di completamento nei vari paesi arabi del Golfo, Emirati inclusi. In altri termini, il nucleare ce l’hanno tutti.
Il terzo motivo è la deterrenza. Memori dell’invasione irachena nel settembre del 1980 e della minaccia rappresentata dai talebani che nell’agosto del 1998 uccisero dieci diplomatici e un giornalista iraniano nella città afghana di Mazar-e Sharif, obbligando il presidente riformatore Khatami a spostare carri armati e soldati sul confine orientale, ora con il nucleare le autorità della Repubblica islamica potrebbero dissuadere i bellicosi vicini da un potenziale attacco. Ulteriori dubbi riguardano il mar Caspio, dove sono racchiuse importanti risorse energetiche minacciate fino al 2018 dall’incertezza del diritto: in seguito alla caduta dell’impero sovietico, fino al 2018 nessun trattato aveva sostituito quello in vigore tra Mosca e Teheran per la spartizione delle acque e del suolo. E quindi non era chiaro a chi appartenessero i giacimenti nel Caspio. Proprio per difenderli, a fine settembre 2003 la Marina militare iraniana aveva varato l’incrociatore Peykan.
Il quarto motivo per cui l’Iran non vorrebbe rinunciare al nucleare è legato alle risorse energetiche: come il resto del Medio Oriente, negli ultimi decenni l’Iran ha vissuto un forte aumento demografico e un crescente inurbamento della popolazione, fattori che hanno portato a un incremento nella domanda di energia, sinora fronteggiata con un maggiore consumo di petrolio. Ma ogni barile di oro nero consumato sul mercato nazionale è un barile in meno disponibile per le esportazioni e comporta quindi una diminuzione delle entrate. Senza contare che in Iran, come nel resto dei paesi produttori di petrolio, il prezzo del carburante è in parte sussidiato. Per far fronte alla crescente domanda di energia, gli ayatollah vorrebbero ricorrere al nucleare, senza per questo rinunciare a sfruttare nuovi giacimenti.
Alla luce di questi argomenti, è difficile dissuadere Teheran dal portare avanti l’arricchimento dell’uranio fino a quella soglia che permette di convertire, in tempi rapidi, il nucleare civile in nucleare a scopi militari.