La politica estera dell’Italia nel Grande Medio Oriente
Se la continuità è uno delle regole cardinali delle scienze naturali (natura non facit saltus, dicevano gli antichi), la stessa continuità è uno degli ingredienti essenziali della politica estera di un Paese – gli ‘interessi permanenti’ a cui si riferiva Palmerston. Pure, il complesso mondo delle relazioni internazionali mette sovente alla prova la tenuta di questo caposaldo, alimentandosi di cambi di paradigma tanto repentini quanto insondabili.
Il Grande Medio Oriente, quell’immensa distesa di terre e mari che si protende dall’Atlantico al Hindu Kush, dal Sahel al Golfo Persico, abbracciando un crogiuolo di culture, religioni, lingue e popolazioni tanto diverse eppure tenute assieme da millenni di storia comune, attraversa oggi una stagione di profonda evoluzione. Le tradizionali linee di faglia che hanno a lungo percorso la regione codificandone schieramenti, rivalità e affinità sembrano oggi fare spazio a un’epoca, ancora alle porte e tutta da scoprire, di trasformazioni.
La febbrile attività delle cancellerie cerca di registrare e di reagire agli scombussolamenti del paesaggio strategico globale. Mentre sullo sfondo imperversano guerre, tensioni, sfide e minacce più o meno inedite, l’attività diplomatica sembra sperimentare un’insperata rifioritura proprio in una regione che pareva condannata a sperimentare nient’altro che divisioni e conflitti: Israele normalizza i propri rapporti con un insieme di Paesi vicini, i turchi tornano a parlare con gli egiziani, i sauditi con gli iraniani e, a cascata, i conflitti in Siria, Yemen e Libia entrano in una fase nuova, potenzialmente decisiva.
Il protagonismo dei leader regionali e il percepito disimpegno della tradizionale presenza americana contribuiscono a delineare uno scenario estremamente fluido, aperto a combinazioni un tempo impensabili.
Schematizzando al massimo, tre sono i fronti su cui si registrano le principali novità.
Il primo, e potenzialmente più gravido di conseguenze, è quello della storica rivalità fra Iran e Arabia Saudita. Per quanto embrionali e finora circoscritti a pourparlers meramente tecnici, che hanno però fruttato un risultato di tutto rilievo come la tregua in Yemen, i negoziati in corso a Baghdad fra due protagonisti della regione possono rappresentare un primo passo verso un disgelo che, non a caso, procede parallelamente al tentativo in atto fra Riad e Washington di riparare la trama di un’alleanza cui le frizioni degli anni più recenti avevano apportato più di qualche smagliatura. La visita del Presidente americano Biden nel regno lo scorso 15 luglio, al di là delle sue pur rilevanti implicazioni simboliche, ha riproposto il fondamentale dilemma della diplomazia saudita: negoziare un modus vivendi con Teheran – anche per porre fine alla catastrofe umanitaria e politica del conflitto yemenita – o aderire formalmente al percorso regionale di normalizzazione con Israele. Dilemmi uguali e contrari a quelli che condizionano la politica estera mediorientale degli stessi Stati Uniti: incoraggiare un accomodamento fra Riad e Teheran, con buona pace di Tel Aviv, oppure continuare ad alimentare il cordon sanitaire anti-iraniano, facendo perno sul timore diffuso della “mezzaluna sciita” per favorire la convergenza fra regimi sunniti e Israele.
Non meno rilevante per il riassetto degli equilibri della regione è la “charme offensive” turca. Lo storico disgelo con Riad, consacrato dalla visita del Presidente Erdogan a Gedda dello scorso aprile, ricambiata in giugno dal Principe ereditario saudita, e gli accenni a una possibile – ma ancora embrionale - distensione con Il Cairo rientrano in un ripensamento complessivo della postura internazionale di Ankara. Alla politica assertiva degli scorsi anni, che ha prodotto successi limitati nei teatri siriano e libico a fronte di un pericoloso isolamento, la Turchia sembra preferire ora un approccio più prudente, soprattutto nei confronti dei guardiani dello ‘status quo’ regionale, senza tuttavia rinunciare a qualche sortita più ‘osée’, come dimostrato con l’ostruzionismo alle candidature finlandese e svedese alla NATO, le ricorrenti schermaglie verbali con la Grecia, le minacciate operazioni militari nel teatro siriano.
Per quanto cauti, i primi accenni di distensione fra Ankara e Il Cairo sono paradigmatici dell’allentamento dei toni più rigidamente ideologici che hanno a lungo alimentato i cleavages regionali. L’animosità fra Ankara e Il Cairo, infiammata da concezioni opposte del ruolo dell’Islam politico (e della Fratellanza Musulmana in particolare), ha per anni accentuato le divisioni in seno alla ‘Ummah sunnita, contribuendo al consolidamento degli schieramenti conservatore (a guida saudita ed egiziana) e filo-islamista (a trazione turco-qatariota), con ripercussioni immediate sui teatri siriano e libico. Il ripristino di canali diplomatici fra Egitto (e Qatar) e Turchia nel maggio del 2021 sembra deporre nel senso di un pragmatico superamento dell’inflessibilità che aveva caratterizzato il decennio precedente, a vantaggio di rapporti, se non del tutto cooperativi, almeno di tolleranza e rispetto reciproci. Nonostante la cautela con cui il Cairo sembra aver accolto le aperture turche, i fronti su cui collaudare una futura cooperazione abbondano.
Non meno centrale è il ruolo di Israele che, sebbene ostaggio dei capricci di un sistema parlamentare in preda a frammentazioni, veti incrociati e tatticismi, punta a massimizzare i frutti del processo di normalizzazione avviato con gli Accordi di fine 2020. Resta da verificare se i principali attori regionali interessati – a partire dallo stesso Israele – saranno in grado di conciliare il processo di normalizzazione in atto, che trova espressione particolarmente dinamica e promettente nei gruppi di lavoro istituiti al Vertice del Negev del 27-28 marzo scorsi, con lo stallo in cui versa da fin troppo tempo il processo di Pace in Palestina, che resta una condizione ineludibile per qualsivoglia prospettiva di pace giusta e duratura nella regione. Esercizio, quest’ultimo, che difficilmente potrà giungere a maturazione senza l’irrinunciabile contributo di Stati Uniti e Unione Europea, cui spetterà l’arduo compito di sostenere le potenze della regione nella delicata ricerca di un nuovo equilibrio, finalmente inclusivo e sostenibile.
A complicare ulteriormente il quadro contribuiscono, oltre alla ben nota pregiudiziale anti-iraniana, le recenti incomprensioni con Amman. Storicamente cruciali nella gestione dei risvolti umanitari della questione palestinese, i rapporti fra Israele e Giordania attraversano una fase di tensione non solo per le turbolenze sulla tormentata questione della “custodia” della Spianata delle Moschee, ma anche per il rifiuto opposto da Amman a ogni ipotesi di normalizzazione regionale negoziata “sulla testa” dei palestinesi. L’assenza di re Abdullah II allo storico summit del Negev e la recrudescenza degli scontri a Gerusalemme testimoniano la pericolosità di ipotesi di normalizzazione regionale che trascurino il coinvolgimento di palestinesi e giordani.
Nemmeno il Nord Africa, emerso a sua volta da un decennio turbolento, sembra immune agli aneliti di riallineamento in corso nella regione. L’offensiva diplomatica turca sembra aver fatto breccia anche nel Maghreb, a conferma della vocazione di Ankara a rafforzare la propria influenza nelle antiche marche dell’impero ottomano. Al consolidamento della posizione privilegiata conquistatasi in Tripolitania a seguito dell’intervento militare del 2019, la Turchia ha aggiunto un forte investimento nei rapporti con Algeri, suggellati dalla recente visita del Presidente algerino Tebboune ad Ankara, pochi giorni prima del suo viaggio a Roma, lo scorso maggio.
Al di là del rinnovato interesse delle potenze regionali per la regione, le dinamiche interne allo stesso Maghreb meritano particolare attenzione alla luce delle rilevanti implicazioni per la posizione italiana nella regione. L’inasprimento della rivalità fra Marocco e Algeria, lo stallo del processo politico in Libia e la preoccupante deriva anti-parlamentare imboccata dalla Tunisia costituiscono altrettanti banchi di prova per la politica estera italiana ed europea, e per la nostra capacità di districarci in un contesto tanto complesso quanto di evidente rilievo strategico.
L’Italia, per ragioni di intimità geografica, storica e culturale, ha un interesse naturale a promuovere la sicurezza e la stabilità del suo fianco meridionale. In un contesto internazionale in evoluzione, non possiamo rinunciare a un ruolo più incisivo, non tanto in un’ottica angustamente commerciale, ma soprattutto per indirizzare il rapporto dell’Unione Europea con i Paesi del bacino mediterraneo, ponendoci al contempo come tramite e guida delle istanze securitarie europee, oltre che come affidabile security provider per i Paesi della regione.
Il dualismo tra Algeria e Marocco, riacuitosi in seguito all’adesione marocchina agli Accordi di normalizzazione promossi dall’Amministrazione statunitense dopo che quest’ultima si era schierata al fianco di Rabat sulla questione vitale (anche per Algeri) del Sahara Occidentale, impone alla diplomazia italiana un delicato esercizio di equilibrismo, reso viepiù complesso dalla crescente importanza di garantire i flussi energetici dalla nostra sponda meridionale. L’approfondimento dei rapporti con l’Algeria, suggellato dalla recente visita di Stato dell’algerino Tebboune a Roma, ricambiata solo qualche settimana fa dalla partecipazione del Presidente Draghi al Vertice Intergovernativo tenutosi ad Algeri, non può ridursi in uno sterile gioco a somma zero. L’Italia deve rivendicare con forza la storica vocazione a una politica mediterranea plurale ed equilibrata, senza cedere alle pressioni di chi nella regione concepisce i rapporti di vicinato in un’ottica puramente competitiva. Anzi, i solidi rapporti bilaterali che l’Italia ha saputo coltivare sia con Algeri sia con Rabat, la coerenza e la lungimiranza mostrate sul dossier del Sahara Occidentale e gli ampi margini di cooperazione sui volet migratorio, energetico, culturale e del contrasto al terrorismo e all’estremismo violento suggeriscono una politica, se non di mediazione, quantomeno di equivicinanza costruttiva.
Il banco di prova più importante per il nostro Paese resta tuttavia la Libia. Il rischio di disgregazione del paese è purtroppo concreto: le precarie condizioni politiche e securitarie, recentemente evidenziate dalle proteste popolari di inizio luglio e dai sempre più frequenti scontri tra milizie, rappresentano una sfida ancor più complessa e non per questo meno essenziale. Analogamente ad altri conflitti, l’ormai decennale crisi libica risponde a logiche tanto endogene quanto esogene, dettate dalla competizione senza esclusione di colpi fra potenze straniere. La consolidata presenza russa in Fezzan e Cirenaica, lo stallo del processo di riconciliazione nazionale e il rischio di una frammentazione politica e istituzionale del Paese chiamano l’Italia ad approfondire gli sforzi in vista di una soluzione condivisa anzitutto dalle varie anime della Libia, che non potrà prescindere da elezioni nazionali libere e credibili. In questo senso, l’impegno italiano si articola lungo tre direttrici: il sostegno alla mediazione delle Nazioni Unite – purtroppo fiaccata dalle tensioni in seno al Consiglio di Sicurezza – e alle iniziative dell’Unione Europea in materia di contrasto all’immigrazione clandestina e deconfliction, la tutela degli interessi strategici italiani (compresi i consistenti investimenti in ambito energetico) e la promozione di canali di dialogo intra-libici in vista di elezioni eque, trasparenti e credibili. Solo una Libia stabile e libera da interferenze straniere potrà garantirci garanzie sul fronte migratorio, flussi energetici stabili e, più in generale, un vicino solido e prospero a poche miglia dalle coste siciliane.
A distanza di più di vent’anni dai tragici eventi del settembre 2001 e a più di dieci dagli sconvolgimenti, dalle speranze e dalle illusioni delle Primavere arabe, il grande Medio Oriente si conferma, nonostante le sue idiosincrasie e la sua intrinseca complessità, un crocevia fondamentale per la stabilità del sistema internazionale. Lo testimoniano la presa di coscienza degli Stati Uniti, consci dell’impossibilità di perseguire l’agognato “pivot to Asia” senza un Medio Oriente in equilibrio, la crescente penetrazione commerciale cinese, il consolidamento dell’influenza russa in Siria e Libia.
Se è vero, scomodando Brzezinski, che in un’epoca sempre più contraddistinta dalla competizione tra grandi potenze “the chief geopolitical prize is Eurasia”, il grande Medio Oriente è destinato a conservare un ruolo essenziale. Tanto più per un Paese come il nostro, per il quale il Mediterraneo è punto di riferimento irrinunciabile, snodo di sfide e opportunità per costruire nuovi percorsi di collaborazione a beneficio non solo nostro, ma di tutti i Paesi della regione. Una vocazione, a impegnarsi a fondo nel Mediterraneo e nella più ampia regione che lo circonda, che da sempre ispira l’azione della diplomazia italiana e alla quale l’Italia non intende sottrarsi.