Non esistono ‘Presidenti a vita’
Ogni cronaca, racconto e analisi sul rapporto tra Paesi europei e Medio Oriente inizia con una frase che, seppur diversa nella forma, recita più o meno queste parole: “l’Unione Europea è stata colta di sorpresa dalle rivoluzioni del 2011”.
Il problema, rispetto a tale affermazione, è tutto nell’approccio dell’analisi e dell’osservazione che il nostro continente ha verso la regione. Una regione che per la presenza di regimi autoritari da un lato, e per l’abnegazione degli stessi nel perseguire lo sviluppo neo-liberale dell’economia dall’altro, si è sempre presentata stabile e incolume alle sollevazioni popolari.
La maggior parte delle analisi, fortemente influenzate dall’approccio geopolitico, hanno di fatto denigrato tutta una serie di processi interni che hanno portato a un graduale logoramento del potere costituito preferendo, non sempre a torto, le relazioni tra attori regionali e internazionali.
Sembrava quasi che tali Paesi a livello interno fossero politicamente congelati e i loro leader seduti al potere quasi per emanazione divina.
Così, l’Egitto era Mubarak, la Tunisia Ben Ali e la Libia Gheddafi, nessuno avrebbe mai immaginato che il loro potere, per quanto discutibile, poteva essere messo in serio pericolo da sommosse popolari.
È un esempio il comunicato del FMI nel 2010 sull’Egitto nel quale si descriveva il Paese come “resiliente alla crisi poiché dal 2004 aveva intrapreso una serie di riforme economiche”. Dopo un anno dal comunicato Hosni Mubarak, al potere da 30 anni, fu costretto alle dimissioni.
Le rivoluzioni del 2011 così come quelle avvenute a cavallo tra il 2018 e il 2020 ci hanno insegnato due cose fondamentali: a) non esistono ‘Presidenti a vita’; b) bisogna guardare anche all’interno dei Paesi per capirne i meccanismi.
Con tutti i loro limiti, i processi di cambiamento che hanno caratterizzato la regione del Medio Oriente e Nord Africa non sono del tutto tramontati. Mi spiego: tutte le rivoluzioni, come eventi di ampia partecipazione popolare, hanno un inizio e una fine. Così, a mo’ di esempio, la rivoluzione egiziana, iniziata il 25 gennaio del 2011 è terminata il 3 luglio del 2013 con il colpo di Stato del Generale Abd al-Fattah al-Sisi.
Ciò che è in corso è invece un processo molecolare, quasi impercettibile, il quale, per quanto monco e represso dalla brutalità dei regimi al governo, resta vivo nelle mobilitazioni quotidiane da parte della popolazione.
Insignificanti per le analisi geopolitiche poiché, a ragione, non rappresentano un vero pericolo per gli equilibri geostrategici, esse continuano ad essere importanti se combinate e analizzate insieme ai grandi processi regionali e internazionali.
Mai come oggi la maggior parte dei regimi del Nord Africa trovano la propria ‘stabilità’ su una precaria pace sociale la quale è mantenuta non, come succedeva nel periodo post-coloniale, dalla combinazione tra dominio (monopolio dell’uso della forza) e un minimo di consenso (politiche stataliste), ma soltanto attraverso mezzi coercitivi violenti.
Oggi, la narrativa pre-2011 sulla stabilità dei regimi egiziano, tunisino, marocchino e algerino sembra essere ritornata in auge dopo un breve periodo, quello post-mobilitazioni, in cui le analisi prestavano molta più attenzione al rapporto tra Stato e società nella regione.
Mai come in questo periodo, segnato da una profonda crisi economica e dall’incapacità dei governi di far fronte alle profonde disuguaglianze sociali, è importante saper interpretare il rapporto tra governati e governanti.
Il contratto sociale oggi in Paesi come Egitto, Algeria e Tunisia è fortemente segnato dalle misure di emergenza messe in atto durante il periodo pandemico e, in ultima istanza, dalla crisi del grano per la guerra russa in Ucraina.
Se, da un lato, tali misure hanno di fatto contribuito a sedare eventuali mobilitazioni di dissenso, dall’altro, osservando la situazione pre-pandemica, ci accorgiamo che l’equilibrio e la pace sociale all’interno dei Paesi erano tutt’altro che stabili.
Nel periodo menzionato, caratterizzato anche dalle rivoluzioni algerina, libanese e sudanese, anche Paesi apparentemente stabili come l’Egitto e la Tunisia, sono stati caratterizzati da ampie mobilitazioni.
In Egitto nel settembre del 2019 si udivano nelle strade vecchi slogan gridati durante l’epoca rivoluzionaria. Nonostante fossero proteste molto ridotte in termini quantitativi rispetto a quelle del 2011, il regime egiziano ha reagito con forza brutale, eseguendo in una settimana circa 3000 arresti.
Le mobilitazioni sono poi continuate, in forma ancor più ridotta ma significativa in termini di importanza sociale, durante la pandemia quando il governo ha liquidato una serie di industrie statali alimentando la mobilitazione dei lavoratori.
La Tunisia, seppur considerato come un ‘caso di successo’ delle primavere arabe, è stata caratterizzata da un forte malcontento sia sociale, soprattutto nelle zone povere del Paese, sia verso quelle forze politiche che avevano giocato un ruolo centrale durante la transizione post-Ben Ali. Inoltre, la crisi creata dalla pandemia da Covid19 (la Tunisia è stato uno dei Paesi del continente africano che ha registrato numeri maggiori di contagi) ha inasprito ancor di più il rapporto tra Stato e cittadini.
In entrambi i casi, ma anche guardando all’Algeria per restare in Nord Africa, con l’aumento della crisi economica e con l’incremento di misure di austerità verso le classi sociali meno abbienti, la repressione governativa è cresciuta a dismisura.
L’Egitto, come è chiaro a tutti, è diventata una realtà totalitaria; la Tunisia, soprattutto all’indomani dello scioglimento del parlamento e dell’assunzione dei pieni poteri da parte del Presidente Saied, è tornata ormai a pratiche autoritarie verso la popolazione.
In Algeria, nonostante il regime change, il Presidente e il governo sono stati eletti da una piccolissima parte della popolazione e non godono di alcun sostegno da parte della stessa.
Abbiamo potuto vedere che il 2011 non è stato, come molti credono, un processo rivoluzionario spontaneo e nato improvvisamente, ma è stato determinato da una lunga accumulazione di forze che sono nate dall’intreccio di questioni sociali (fallimento delle politiche di liberalizzazione dell’economia) e politiche (movimenti di opposizione ai vari regimi).
Se da un lato è vero che nessun evento futuro è prevedibile, dall’altro è pur vero che la Storia, seppur recente, ci ha lasciato in eredità degli insegnamenti, ovvero che non esistono presidenti a vita o regimi a vita.
Se si considerano i sistemi autoritari come sistemi passeggeri e poco legittimi, allora bisognerebbe fare un passo indietro e ripensare la loro strategicità e come partner ineludibili per il perseguimento di obiettivi e interessi comuni.