Un Mediterraneo da reintegrare
Regione critica, fecondo crogiuolo della nostra civiltà diventato fonte di crisi permanenti, il Mediterraneo sta finalmente acquistando dei meglio riconoscibili connotati politici. Un’evoluzione per ora soprattutto di facciata, che non potrà consolidarsi se non sarà accudita dall’insieme di una comunità internazionale che sembra aver perso il cammino da percorrere in comune.
Da un intero secolo, dalla disgregazione dell’Impero ottomano, il Medioriente non è ancora riuscito, al pari dei Balcani, a ricomporre le sue varie componenti in un qualche coerente comune denominatore. Per l’intero dopoguerra, a differenza di una Jugoslavia rifugiatasi nel non-allineamento, si è invece rivelato uno dei principali focolai della Guerra fredda, nel quale la questione palestinese è servita da strumentale pomo della discordia. Una questione, quella palestinese, che pare aver ora perso la sua funzione aggregante, anti-israeliana.
Il panarabismo, originariamente innervato di ‘socialismo arabo’, continua però a scontrarsi con i riflessi condizionati tribali che contraddistinguono quelle diverse nazioni. In passato, i tentativi egiziani di federazione con lo Yemen, con l’Irak, sono miseramente falliti; le ambizioni egemoniche dell’Irak di Saddam Hussein si sono infrante ai confini con l’Iran e poi nel Kuwait (ben prima dell’intervento americano, sollecitato dall’Arabia Saudita); e le ‘primavere arabe’, dopo aver abbattuto alcuni autocrati, si sono avvizzite. La stessa Libia di Gheddafi, inviso e infine abbandonato dai suoi fratelli arabi, ne è stata disintegrata. I problemi interni dell’Egitto l’hanno troppo a lungo distratto dal ruolo trainante, anche se non più determinante, che storicamente le compete.
I vicini turchi e iraniani, non-arabi, non sono riusciti ad avvantaggiarsene per riproporsi come interlocutori indispensabili nella costruzione di un ’Grande Medioriente’. Difficile permane inoltre la saldatura del Nordafrica con il Medioriente, fra Maghreb e Mashrek; nello stesso Maghreb fra Algeri e Rabat, sul Sahara occidentale. Tunisia e Algeria faticano a ritrovare una qualche stabilità interna. Precaria rimane la situazione nel loro retroterra saheliano.
Interessante è che il Marocco abbia ritrovato la sua collocazione nella Lega Araba e nell’Unione Africana; un’evoluzione confermata dalla sua partecipazione alle recenti iniziative diplomatiche mediorientali. Significativo è stato l’incontro avvenuto fra i Ministri degli Esteri di Bahrein, Emirati, Egitto e, appunto, Marocco con quelli di Israele e Stati Uniti. Turchia e Israele hanno ristabilito i loro contatti diretti interrotti dal 2007. Il Qatar è stato riammesso nel Consiglio di Cooperazione del Golfo. Dietro le quinte sono rimaste l’Arabia Saudita che, aspirando all’egemonia regionale, tira però i fili di questo riallineamento, e la Giordania, l’unica impegnata a mantenere il rapporto con i Palestinesi. Emarginati, collassati, l’Irak, la Siria, la Libia, la cui collocazione geo-strategica rimane cruciale per le nuove equazioni che tardano a consolidarsi.
Ne consegue che il Mondo arabo rimane avulso dalla scena mondiale, afono, nello stesso ambito delle Nazioni Unite. Sulle risoluzioni dell’Assemblea generale dell’ONU in tema di sanzioni alla Russia, i paesi arabi non si sono esposti (i soli Emirati, assieme a Iran e Turchia, si sono dichiarati contrari), né hanno ancora preso impegni. Peraltro, in merito alle ‘Conseguenze umanitarie dell’aggressione all’Ucraina’, mentre la sola Siria ha per ovvii motivi votato contro e l’Algeria si è astenuta, gli altri paesi arabi si sono schierati contro il comportamento di Mosca.
Se ne dovrebbe argomentare che l’auspicabile reintegrazione della regione mediterranea nel sistema dei rapporti internazionali, ampliandone i collegamenti politici e strategici, continui a dipendere dalle sollecitazioni e connesse garanzie esterne dell’intera comunità internazionale. In tal senso, bisognerebbe operare perché un Iran reinserito nell’accordo sul nucleare, e una Turchia estratta da rigurgiti neo-ottomani, si ripresentino quali attori compartecipi del destino del ‘Grande Medioriente.
Una situazione che costringe l’America a mantenere la propria impronta nella regione, ma dovrebbe aver aperto spazi perché l’Europa possa imprimervi la propria. Non che l’Unione non abbia tentato di farsi valere: con il ‘partenariato arabo’, il ‘processo di Barcellona’, la ’Unione del Mediterraneo’ e, alla luce delle ‘primavere arabe’, la sua ‘politica di vicinato’, l’Unione europea ha da anni moltiplicato le iniziative rivolte a coinvolgere i paesi sull’altra sponda del Mare comune. Impostandole però sempre sul ‘more for more’, ovverossia sulla loro capacità di aggregarsi fra di loro, per poter corrispondere efficacemente alla necessaria impresa condivisa, se non rigorosamente collettiva.
Evidente è peraltro diventato quanto l’influenza dell’Europa dipenda dalla sistemazione di alcuni macroscopici ‘strappi’ nello stesso suo tessuto continentale, nei Balcani, a Cipro, e ora con l’aggressione della Russia all’Ucraina. Indicativa è la riemersione dell’antico dilemma dell’approvvigionamento energetico europeo. Lo choc petrolifero del 1973 impose alla Comunità europea una rifondazione dei rapporti con il Mondo arabo e la corresponsabilizzazione della Russia nella gestione dell’OPEC. Le sanzioni alla Russia inducono oggi l’Europa a rivolgersi di nuovo prioritariamente ai produttori del Mondo arabo, agli Emirati, alla Libia, all’Algeria. Ad ulteriore dimostrazione di quanto sia nell’interesse stesso dell’Europa coinvolgere i suoi partner mediterranei in comuni progetti di rilevanza strategica, che rimangono da elaborare.
La via d’uscita comune non può essere che una multi-lateralizzazione (‘internazionalizzazione’, si diceva una volta) della gestione di un’intera area geografica, rimasta troppo a lungo ai margini della politica internazionale, pur costituendone più cha mai palesemente un’indispensabile parte integrante. Estraendola da quei condizionamenti interni ed esterni, dalla morsa di quell’equilibrio di potenze che per un intero secolo l’ha condizionata. Le asimmetrie geostrategiche che diversificano gli Stati che ne fanno parte non devono frantumarne l’assieme, rendendoli succubi delle mire altrui, invece che artefici di un’agenda regionale, possibilmente condivisa.
In tale contesto, all’Italia, più di altri geograficamente immersa in questo ‘mare di mezzo’, spetta farsene la principale promotrice. Trovando finalmente la propria strada, liberandosi dal generico traino delle pur lodevoli iniziative delle Nazioni Unite, rispetto all’eterogeneità delle presenze di Russia e Turchia, di Egitto e Emirati, degli stessi Stati Uniti. Districandosi dall’ostruzione di pur legittime pretese, quale quella del 'caso Regeni’. Superando l’antico complesso, risalente all’epoca giolittiana, di una irriducibile rivalità con la Francia. Con la quale, assieme alla Spagna, va invece elaborata una strategia comune, da far valere anche a Bruxelles.