Il Piano Mattei e la maledizione delle risorse
Quando si parla di “estrattivismo”, l’interpretazione più ampia del termine fa riferimento alla sistematica sottrazione delle risorse dai territori – dalle materie prime al tempo. È un saccheggio che si combina con lo spostamento forzato della sovranità dei territori da chi li vive a chi li depreda: a decidere non sono più coloro che vivono grazie a quanto i territori mettono a disposizione, ma le multinazionali che si servono di un favorevole rapporto di forza per garantire invece il consolidamento e la riproducibilità di un modello predatorio. Quando viene a mancare la possibilità di una vita degna o quando è a rischio l’incolumità della persona, la conseguenza ultima dell’estrattivismo è la migrazione forzata. Con l’aggravante di essere la principale imputata per i cambiamenti climatici in corso, l’industria dei combustibili fossili può essere considerata l’emblema dell’estrattivismo.
Nominato per la prima volta a ottobre 2022 dalla Premier Giorgia Meloni nel suo discorso alla Camera per chiedere la fiducia al suo governo, il Piano Mattei per l’Africa ha l’ambizione di legare proprio il tema delle risorse con quello delle migrazioni, avendo tra gli obiettivi la “sicurezza energetica” italiana e la “governance dei flussi migratori”.
Un piano le cui origini risalgono all’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione russa, quando si è compresa la portata della dipendenza europea dalla produzione di idrocarburi in altri paesi. Le risposte istituzionali alla conseguente crisi energetica hanno spinto numerosi stati europei da una dipendenza a un’altra, Italia compresa. Nella primavera del 2022, l’allora ministro degli Esteri Luigi Di Maio e l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi si recarono infatti in Qatar, ma anche in Algeria, Congo, Angola e Mozambico, con l’obiettivo di aumentare le forniture energetiche per l’Italia. Paesi attraversati da forti instabilità socio-politiche, anche a causa dell’ingombrante presenza delle multinazionali energetiche europee, statunitensi, cinesi, giapponesi e coreane.
Il 29 gennaio 2024, nella cornice di Palazzo Madama, durante il Vertice Italia-Africa il Piano Mattei è stato presentato ufficialmente come pilastro della nuova cooperazione tra Italia e Continente africano. È in quell’occasione che si è dibattuto molto di “sicurezza energetica dell’Italia”, di “governare i flussi migratori” e di “lotta al terrorismo”, meno invece dei desideri e dei bisogni delle popolazioni africane.
In ragione dell’estromissione da qualsiasi discussione riguardante il Piano Mattei, ottanta organizzazioni della società civile africana hanno presentato una serie di richieste da sottoporre al governo italiano. Tra queste c’era proprio la necessità di una maggiore inclusione della società civile africana nel piano. C’era poi la richiesta di non finanziare progetti fossili e, di conseguenza, mantenere l’impegno a raddoppiare i finanziamenti per l’adattamento alla crisi climatica dei paesi africani, maggiormente esposti nonostante il loro contributo minimo in termini di emissione di CO2. Esortavano infine la cooperazione e lo sviluppo a orientarsi verso le energie rinnovabili, per soddisfare le esigenze di 600 milioni di africani. Sollecitazioni che non hanno mai avuto risposta.
Dalla lettera trapelava anche una forte preoccupazione per l’astrattezza del piano, con il rischio che sfociasse in scarsa trasparenza. Un elemento, questo, che permane ancora, come evidenziato da ActionAid Italia il 29 luglio 2024, durante il ciclo di audizioni informali nell’ambito dell’esame dello “Schema di DPCM di adozione del Piano strategico Italia-Africa: Piano Mattei”. Ad oggi il piano risulta mancante di dettagli quali cronoprogramma e indicatori di misurazione dello stato di avanzamento degli interventi - a partire dai progetti-pilota, nonché di un resoconto narrativo delle modalità di creazione dei partenariati con le controparti africane: elementi imprescindibili per comprendere se gli interventi vadano nella auspicata direzione di “un approccio nuovo, non predatorio, non paternalistico ma neanche caritatevole: un approccio da pari a pari, per crescere insieme”.
Un’approssimazione che si riscontra anche negli strumenti finanziari in dotazione: il suddetto DPCM ne menziona più di 14 tra nazionali e internazionali, senza approfondirne la reciproca funzionalità e se ciascuno sia associato a una specifica area di intervento: infrastrutture, approvvigionamento e sfruttamento delle risorse naturali, salute, agricoltura e sicurezza alimentare, manifatturiero. Aree di intervento che, a ben guardare, hanno poco a che fare con la cooperazione allo sviluppo portata avanti dalla società civile italiana insieme alle controparti africane e molto con l’import/export delle PMI italiane, alla disperata ricerca di nuovi mercati dopo gli shock derivanti dalla pandemia di Covid-19 e l’invasione dell’Ucraina. Le PMI possono difatti fare leva sul fatto che il Piano Mattei sia disegnato sui piani di investimento dei “campioni” industriali italiani facenti parte della Cabina di regia del piano, a partire da quelli operanti nel comparto energetico. Stona quindi che le risorse finanziarie per il Piano Mattei siano attinte dal Fondo Italiano per il Clima - gestito da Cassa Depositi e Prestiti - e dai fondi per la Cooperazione allo sviluppo.
I criteri di ammissibilità dei progetti al Fondo sono di per sé molto deboli, perché poggiano sulla base della metodologia Rio Markers dell’OCSE. Nonostante non affermi esplicitamente che i progetti fossili siano ammissibili, il gas è presentato erroneamente come un combustibile di mitigazione del cambiamento climatico, lasciando quindi spazio all’interpretazione. Inoltre, le principali istituzioni di finanza pubblica italiane, Cassa Depositi e Prestiti e SACE, chiamate a svolgere un ruolo da protagoniste nel piano, presentano il paradosso di supportare a livello domestico la transizione energetica ma la ostacolano nell’operatività internazionale. Attraverso l’operatività di SACE, l’Italia è il primo finanziatore pubblico di combustibili fossili in Europa e il quinto a livello globale. Dall’entrata in vigore dell’Accordo di Parigi sul clima, l’ammontare garantito per progetti di carbone, petrolio e gas equivale a 20 miliardi di euro. Quasi il 50% di queste garanzie riguarda progetti realizzati proprio in vari paesi dell’Africa: Mozambico, Nigeria, Egitto etc.. Nello stesso periodo, i prestiti di CDP a progetti di petrolio e gas nel continente ammontano a 1,66 miliardi di euro.
È quindi fonte di ulteriore apprensione che il DL 89/2024 sottragga le già blande funzioni di orientamento strategico, priorità di investimento, approvazione delle procedure operative e dei singoli interventi agli organi del Fondo Italiano per il clima, per rimetterle a un nuovo Comitato tecnico presso la Struttura di missione del Piano Mattei.
L’astrattezza del Piano Mattei - da un punto di vista di governance, di contenuti e sul piano delle risorse finanziarie, lascia così aperti spazi di ambiguità che rischiano di essere colmati a propria discrezione dagli enti gestori e dai beneficiari degli interventi. Ambiguità che, con il passare del tempo, gettano la maschera a favore di una palese agenda orientata all’export verso l’Italia e l’Europa di forniture energetiche fossili e non, come confermato dallo stesso ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin.
Per molti paesi dell’Africa, la corsa alle risorse promossa dal Piano Mattei non farà altro che aggravare la “maledizione delle risorse naturali”. Molti di questi sono quelli a cui hanno fatto visita Di Maio e Descalzi, ora in vetrina per i progetti-pilota del piano. Il rischio concreto è che aumentino di numero o si aggravino le condizioni di quelle che Nnimmo Bassey e Anabela Lemos hanno definito “zone di sacrificio e persone di sacrificio”.
Per attenuare questi rischi, è innanzitutto necessaria l’istituzione di uno spazio di confronto tra Cabina di regia del Piano Mattei e società civile africana, che può essere facilitato da quelle stesse reti della società civile italiana partecipanti alla governance del piano. Secondariamente, sarebbe auspicabile proporre interventi orientati al trasferimento di know-how nelle aree di intervento verso il Continente africano piuttosto che a binarie dinamiche di affidamento dei progetti a realtà italiane, import del materiale di costruzione ed export delle risorse grezze o lavorate.
In ultimo, l’industria estrattiva è sempre stata, soprattutto in Africa, foriera di un approccio predatorio da cui il piano vuole prendere le distanze: devastazione ambientale, contributo alla crisi climatica, violazioni dei diritti umani, debito. Fugare ogni dubbio che questa possa essere supportata finanziariamente dal Piano Mattei sarebbe davvero un approccio nuovo di porsi nei confronti dei paesi dell’Africa.