Italia e Africa: il Piano Mattei può farcela?

Arthur Muliro
Society for International Development

L'ambizioso Piano Mattei, la nuova iniziativa di cooperazione tra l’Italia e le nazioni africane, si sta rivelando come un'ennesima occasione mancata. La retorica di una partnership equa, fondata su presupposti di collaborazione economica e sviluppo sostenibile, stride con una realtà che sembra invece ricalcare persistenti schemi coloniali.

Emblematica di questo approccio è la mancata consultazione preliminare dei Paesi africani evidenziata dal Presidente della Commissione dell'Unione Africana. Moussa Faki Mahamat, parlando al Parlamento italiano, è intervenuto a sottolineare come i governi del suo continente avrebbero apprezzato essere consultati prima del lancio ufficiale del Piano. Vale a dire, ciò che è stato presentato come una strategia di collaborazione tra Italia e Africa è in realtà un documento preconfezionato a cui ci si aspettava i Paesi africani aderissero automaticamente, e anche con gratitudine.

Una recente inchiesta giornalistica del programma RAI "Report" ha messo a nudo uno dei progetti chiave del Piano in Kenya, un investimento nei biocarburanti da 210 milioni di euro, stanziato per piantagioni di olio di ricino che promettevano di coinvolgere 400.000 agricoltori. I risultati iniziali, alla luce delle testimonianze raccolte dall’inchiesta, raccontano di un fallimento clamoroso.  Le promesse di guadagni di 350-540 euro per mezzo ettaro coltivato si sono infrante di fronte a una spiazzante realtà: gli agricoltori hanno ricevuto poco più di un euro per l’olio prodotto. Inoltre il ricino, che è una pianta contenente numerose sostanze tossiche una volta masticata, ha ucciso parecchi animali delle famiglie delle comunità presuntamente beneficiarie.  I vantaggi per le popolazioni del Kenya, insomma, sono stati nulli, in qualsiasi modo lo si guardi. A questo punto è improbabile che gli agricoltori, amareggiati e delusi, vogliano ancora partecipare a questo esperimento – e del resto anche l’ENI si è data alla macchia dopo le rivendicazioni dei contadini al mancato esito del progetto di economia circolare. Chiaramente, questo caso non è la pubblicità che il Piano Mattei cercava, né tantomeno quello di cui ha bisogno, ma ben evidenzia i problemi strutturali che avrà difficoltà a superare.

L'ombra del passato sul Piano Mattei

Per comprendere il Piano, dobbiamo prima considerare il peso della lunga e dolorosa storia coloniale italiana. Tra il 1890 e il 1943, le avventure italiane in Africa, in particolare in Libia, Etiopia, Eritrea e Somalia, furono segnate da una lunga scia di violenze brutali, soprusi e sistematiche violazioni della dignità e dei diritti umani. Campi di concentramento, massacri e sottomissione razziale non erano aberrazioni, ma fondamentali strategie di controllo coloniale.

L'ombra di quelle atrocità continua a proiettarsi sul presente, alimentando spesso risentimento e sfiducia nei confronti delle intenzioni italiane. A differenza di altre ex potenze coloniali, l'Italia ha fatto poco o nulla per affrontare o elaborare pubblicamente il proprio passato, lasciando ferite profonde e creando così scetticismo sulle iniziative dell’Italia di oggi.

Il Piano Mattei porta con sé inquietanti echi di questo trauma storico, nonostante la veste moderna di cui si ammanta. Più che una proposta di partnership, il Piano ha le sembianze di un accurato meccanismo per gestire i flussi migratori e assicurarsi l'accesso a risorse primarie – una versione contemporanea dell'estrazione coloniale confezionata in un linguaggio diplomatico ad hoc.

L'illusione della migrazione

Nel tentativo di affrontare la questione migratoria, il Piano Mattei commette un errore fondamentale: ridurre un fenomeno socioeconomico complesso a un problema tecnico da risolvere con soluzioni progettuali. Peccato che la migrazione non sia un rubinetto che può essere semplicemente chiuso, bensì il risultato di profonde disuguaglianze sistemiche che affliggono il continente africano, di disparità economiche globali e, in generale, del desiderio – più umano che mai – di cercare nuove opportunità.

Oltretutto, il Piano sembra presupporre che bastino minimi incentivi economici ai Paesi africani per convincerli a impedire ai loro cittadini e cittadine di aspirare a una vita migliore altrove. Questo approccio non è solo ingenuo, ma profondamente irrispettoso nei confronti delle ambizioni delle popolazioni del continente africano.

Esaminando il Piano Mattei, si evidenziano in particolare tre debolezze critiche:

1. Mancanza di dialogo

L'iniziativa sembra essere stata progettata con un contributo minimo da parte degli stakeholder africani, come ben riportano le parole del Presidente Moussa Faki. Questa mancanza di dialogo si riflette in un’analisi superficiale del contesto africano, oltre che in un approccio top-down che tratta le nazioni del continente come destinatari passivi di aiuti piuttosto che come partner co-protagonisti.

2. Dinamiche di potere asimmetriche

Il piano mira a perpetuare un modello basato su mere transazioni economiche e incentrato sugli interessi italiani, in particolare sul controllo dei flussi migratori, sulla biosorveglianza contro potenziali patogeni e sull'accesso alle risorse (energetiche).

3. Focus minimo sullo sviluppo

Sebbene sia previsto un investimento economico, è necessario rafforzare la strategia globale per lo sviluppo sostenibile e il trasferimento tecnologico mirato ad una vera mancipazione delle capacità nel continente.

 Oltre la dipendenza

Soprattutto dopo la pandemia di Covid-19, i leader africani sono sempre più navigati nel loro approccio alle alleanze internazionali. Non sono alla ricerca né di elemosine né di soluzioni economiche temporanee. Cercano invece un impegno basato sul rispetto reciproco, in grado di riconoscere la loro sovranità e le legittime aspirazioni allo sviluppo che coltivano. L'Agenda 2063 dell'Unione Africana ne è la testimonianza più chiara. Propone infatti una strategia a lungo termine che mira a trasformare l'Africa in una futura potenza globale, immaginando un continente unito, prospero, pacifico e guidato dalle sue cittadinanze; un continente che pone le proprie fondamenta sui valori di unità, dignità e autosufficienza. Al centro di questa visione ci sono obiettivi come la crescita economica inclusiva, lo sviluppo sostenibile, la modernizzazione delle infrastrutture e la promozione di una buona governance, oltre che della pace. Iniziative di rilevanza in questo senso includono l'African Continental Free Trade Area (AfCFTA), progetti sull’energia rinnovabile e sull'empowerment dei giovani per sfruttare il potenziale demografico dell'Africa. L'Agenda 2063 è radicata nel concetto di ownership africana e mira a ridefinire il ruolo del continente negli affari globali. L'AfCFTA rappresenta un'iniziativa storica che rispecchia proprio questa evoluzione prospettica: è una strategia continentale disegnata per creare un mercato unificato e ridurre la dipendenza dalle potenze esterne attraverso la promozione di una cooperazione economica intra-africana.

In questo contesto, il Piano Mattei appare anacronistico – un residuo di quegli stessi modelli di collaborazione obsoleti e fallimentari che le nazioni africane intendono smantellare sistematicamente.

Opportunità per una reale alternativa?

Una partnership trasformativa tra l'Italia e le nazioni africane richiede un cambio di paradigma radicale. Le dinamiche attuali, focalizzate su transazioni e progetti top-down, non servono. Occorre un approccio globale in cui gli stakeholder africani non siano semplici destinatari, ma co-creatori, sia nella definizione delle strategie di sviluppo che nella progettazione condivisa delle iniziative, attraverso un dialogo paritario e continuo che rispetti le complesse diversità del continente.

Il nuovo approccio dovrà innanzitutto adottare protocolli di investimento trasparenti, concentrandosi sul trasferimento di tecnologie, sul rafforzamento delle competenze locali e su meccanismi che assicurino un reale valore aggiunto per le economie africane. Tuttavia, è il rispetto della sovranità africana ad essere imprescindibile. Occorre infatti abbandonare la visione neocolonialista e riconoscere le nazioni africane come partner autonomi con le proprie traiettorie di sviluppo, aspirazioni e prospettive.

I limiti del Piano Mattei sono anche evidenziati dalla realtà geopolitica di un contesto africano in rapida evoluzione che richiede approcci più sofisticati alla collaborazione internazionale. L'aumento della cooperazione dell'Africa con altri partner globali come Cina, Russia e Turchia, che spesso offrono investimenti significativi con minori condizioni, rende le proposte dell’Italia meno competitive. Il Piano, focalizzandosi sul gas africano per garantire il fabbisogno energetico europeo, rischia di entrare in conflitto con le priorità per le energie rinnovabili sia globali che africane, minandone la presunta sostenibilità. Inoltre, non stupisce che i discorsi sulla sicurezza legati ai temi salute e migrazione alimentino le perplessità dei Paesi africani, poiché di fatto mettono al centro le preoccupazioni dell’Italia invece delle ambizioni africane di mobilità (destinata a crescere per via della catastrofe climatica) e prima ancora di dignità. Un'eredità coloniale ancora presente, l'instabilità politica e un crescente sentimento anti-occidentale minano ulteriormente la fiducia e ostacolano la costruzione di partnership solide e a lungo termine. Ne consegue che, per essere credibile, il Piano Mattei deve sostanzialmente cambiare tono.

Opportunità economiche sottovalutate

Adottando una prospettiva così limitata e incentrata sul controllo dei flussi migratori e sulla sicurezza energetica, l’Italia oltretutto ignora enormi opportunità economiche. L’Africa, con una popolazione giovane in rapida crescita e un potere d’acquisto in aumento, rappresenta il più grande mercato emergente al mondo. Focalizzarsi sulle partnership energetiche legate ai combustibili fossili significa non considerare un settore in piena espansione come quello delle rinnovabili, con Paesi africani come Marocco, Sudafrica e Kenya leader negli investimenti per il solare, l’eolico e l’idroelettrico. Inoltre, l’Africa possiede un enorme potenziale tecnologico e imprenditoriale non sfruttato, in particolare nei settori del fintech, dell’agritech e dei servizi digitali, che l’Italia non sta capitalizzando appieno. La posizione strategica del continente in un’economia globale multipolare offre l’opportunità per l’Italia di impegnarsi in progetti commerciali e infrastrutturali cruciali, in linea con l’obiettivo africano di diversificazione economica e integrazione regionale. Concentrandosi su una visione a breve termine, l’Italia rischia di perdere un'opportunità storica ed essere messa da parte mentre altri attori globali come Cina, Paesi del Golfo, Turchia e India rafforzano la loro presenza economica nel continente africano.

Raccomandazioni per un impegno autentico

Per trasformare il Piano Mattei in una collaborazione con vantaggi reali per entrambi i Paesi, l'Italia deve puntare su una crescita condivisa, con investimenti trasparenti e reciprocamente vantaggiosi che supportino in primis gli obiettivi di sviluppo dell'Africa. Attraverso collaborazioni mirate, il Piano Mattei può diventare un catalizzatore per l'integrazione economica africana, sostenendo l’AfCFTA e l’Agenda 2063 dell’Unione Africana. La potenziale sinergia tra il Piano Mattei e queste iniziative risiede nella capacità di fornire supporto pratico alla loro implementazione, affrontando le sfide sistemiche dello sviluppo economico africano legate a competenze, accesso finanziario, infrastrutture. Per esempio, concentrandosi sullo sviluppo di infrastrutture strategiche (come reti ferroviarie transfrontaliere nella regione del Sahel, progetti di connettività digitale nell’Africa orientale, installazioni di energia rinnovabile negli stati costieri dell’Africa occidentale…), l’Italia può contribuire a colmare le disparità strutturali che attualmente ostacolano il commercio intra-africano, liberando il potenziale imprenditoriale del continente.

Il modello di partnership dovrebbe poi supportare le filiere locali, come le aziende agroalimentari in Etiopia, gli impianti manifatturieri tessili in Ruanda, o ancora l’hub di innovazione tecnologica in Kenya. Inoltre, sarebbe utile fornire meccanismi di finanziamento flessibili tramite fondi d’investimento specializzati. Sostenere programmi di formazione tecnica e professionale potrebbe poi rendere le economie più piccole competitive nell’integrazione economica regionale. Iniziative specifiche, come programmi di ricerca congiunti tra università italiane e istituzioni africane, scambi tecnici in settori come la trasformazione agroindustriale e il supporto mirato alle piccole e medie imprese, potrebbero ulteriormente rafforzare e dimostrare il potenziale della collaborazione. Questo approccio, anche se non esauriente, potrebbe segnare un itinerario promettente per superare le barriere strutturali, offrendo un modello di cooperazione più rispettoso e collaborativo che vada oltre i paradigmi di un tradizionale programma di aiuti.

È ora di superare una visione dell'Africa come problema da gestire. È necessario un profondo cambio di paradigma nella cooperazione economica internazionale, che ripensi radicalmente le relazioni storiche e le dinamiche di potere. Superando i modelli tradizionali di donatore e destinatario, dobbiamo costruire partnership che diano priorità all’autodeterminazione e all’indipendenza africana e, insieme, all'innovazione economica contestualizzata.

L’attuazione di queste proposte innescherà inevitabilmente un processo di cambiamento culturale. A livello istituzionale, i sistemi burocratici devono sviluppare meccanismi di governance più flessibili, in grado di rispondere a contesti economici complessi in continua evoluzione. L'impegno diplomatico deve essere ristrutturato con l’obiettivo di decentralizzare il processo decisionale, offrendo agli stakeholder africani reali opportunità di co-progettazione. Occorre ripensare radicalmente anche gli approcci alla pianificazione economica, passando da una visione a breve termine a una prospettiva più ampia e sostenibile, integrando conoscenze tradizionali e innovazione e adattando le soluzioni alle specificità locali. Allo stesso modo, i sistemi educativi devono essere riprogettati per uno scambio intellettuale reciproco, sfidando i modelli gerarchici di trasferimento del sapere e creando spazi per una reale collaborazione interculturale. Anche i quadri finanziari dovranno essere rielaborati, sviluppando meccanismi di risk-sharing e strumenti di investimento che si allineino alle realtà del territorio, anziché replicare i modelli tradizionali occidentali. Infine, la collaborazione tecnologica deve evolvere dal semplice trasferimento alla co-innovazione, sostenendo uno sviluppo tecnologico distribuito che favorisca l'adattamento e l'innovazione locali.

Questi cambiamenti sistemici vanno ben oltre l’implementazione tecnica e richiedono una profonda riorganizzazione delle dinamiche di potere che storicamente hanno marginalizzato il potenziale economico africano. L'obiettivo finale è creare un modello di cooperazione economica che riconosca la complessità dell'Africa, rispetti le diverse realtà economiche e consenta partnership autentiche ed eque per una emancipazione economica sostenibile e radicata nel contesto locale. In questo senso, il successo dipende non da grandi annunci e gesti diplomatici, ma da un lavoro di scambio paziente e sfaccettato, per ricostruire relazioni economiche di reciprocità e sviluppo condiviso.

Una scelta per il futuro

L’Italia si trova a un bivio ed è chiamata a fare scelte decisive. Il fatto è che solo prendendo in considerazione le aspirazioni africane, oltre che i bisogni dell’Italia, il Piano Mattei può davvero rappresentare un punto di svolta.

Non dimentichiamo: una collaborazione vera richiede un profondo rispetto reciproco, costruito sull’umiltà, sull’ascolto attivo e sulla consapevolezza della nostra comune umanità. Esige di superare rapporti basati su mere transazioni economiche con l’obiettivo di creare un futuro di opportunità condivise e progresso collettivo.

L’opportunità è enorme. L’Italia può ancora fare la differenza.