Piano Mattei, un’opportunità mancata?

Gianni Vaggi
Docente di Economics and Management of Cooperation and Development presso l’Università di Pavia

Nel settembre 2023 i leader dell’Unione Africana si sono trovati a Nairobi per l’African Climate Summit ed hanno approvato la Dichiarazione di Nairobi che consta di 66 punti. Nei punti finali si tratta della necessità di trovare le risorse necessarie per affrontare i temi climatici e viene menzionata sia la struttura della finanza internazionale che il problema del debito estero dei paesi Africani.

In un’intervista al Financial Times il Presidente del Kenya William Ruto è stato molto più esplicito “se non si risolve la questione del debito, non si può risolvere la questione climatica”…è necessario un nuovo strumento: trovare modi per prevenire il default prima che accada”.

Secondo la Banca Mondiale, quasi la metà dei paesi dell’Africa sub-sahariana sono ad alto rischio di sofferenza debitoria, incluso il Kenya. La richiesta di affrontare con decisione il problema del debito africano è arrivata anche da un seminario tenutesi il 5 Giugno 2024 dalla Pontifica Accademia delle Scienze, e  da molte organizzazioni internazionali, NGOs e think tanks. Cosa c’entra tutto questo con il Piano Mattei?

È evidente che si tratta di un Piano che non può competere a livello di finanziamenti con quelli della Cina, circa 10 miliardi di dollari all’anno per quasi vent’anni tramite la Belt and Road Initiative e non solo, anche se negli ultimi anni sono diminuiti.  Forse neppure con quelli degli Emirati Arabi, almeno nel Corno d’Africa. Stesso discorso per l’influenza politica e diciamo pure militare. Giusto individuare alcuni settori principali di intervento, così come alcuni paesi ‘prioritari’, ma se ci si rivolge all’Unione Africana e si ha l’ambizione di proporre un partenariato nuovo ci sono almeno due condizioni affinché il piano sia credibile. Primo, coinvolgere direttamente l’Unione Africana e qui qualche problema purtroppo si è visto fin dall’inizio; secondo, costruire un partenariato internazionale almeno credibile viste le ambizioni del piano. Sul primo punto c’è un possibile ‘second best’: trovare sinergie importanti che significa coinvolgere almeno alcuni paesi Africani, non solo perché li si fanno dei progetti, variamente finanziati, ma per costruire con loro una piccola strategia su temi di loro interesse: il debito e le sfide poste dal cambiamento climatico e dalle esigenze di adattamento almeno parziale sono una scelta ovvia, per altro ribadite nelle più recenti COP, Conference of Partners. Sul secondo punto, come è già stato ricordato, trovare alleanze nei programmi dell’Unione Europea, o almeno con alcuni paesi europei, altrimenti la visione ‘è un piano nostro e siamo più bravi di tutti’ non ci porta molto lontano e soprattutto rischia di ritorcersi contro l’Italia in termini di credibilità internazionale e proprio con quei paesi africani con cui si vorrebbe realizzare il ‘nuovo partenariato non predatorio’.

Torniamo al tema del debito; è noto che non molti mesi fa il Kenya ha visto alcuni giorni di proteste sanguinose dovute ai piani del Governo per ridurre i sussidi e agli aumenti dei prezzi di beni di prima necessità, programmi che il Presidente Ruto ha dovuto ritirare. Disordini simili sono avvenuti anche in altri paesi al di fuori dell’Africa dal Pakistan al Bangladesh.  Del resto nel 2023 il Kenya ha speso il 62% del budget per il servizio del debito. A 25 anni dall’iniziativa HIPC, Heavily Indebted Poor Countries Initiative, e  ad una ventina d’anni dalle grandi ‘cancellazioni dei primi anni 2000’ da parte sia dei creditori ufficiali con l’HIPC che delle istituzioni finanziarie Internazionali con MDRI, Multilateral Debt Relief Inititive, il problema del debito estero è tornato a farsi sentire in Africa con numerosi paesi classificati in condizioni di ‘debt distress’ o ad altro rischio di ‘distress’, come spesso segnalato da Marco Zupi su questo sito e non solo.

Rispetto a quello degli anni ottanta la composizione del debito sul PIL africano era scesa dal 40 al 10 per cento fra il 2002 ed il 2006, negli ultimi 10 anni è risalita fino a sfiorare il 30 per cento. La composizione del debito è cambiata moltissimo: la quota di debito verso i paesi OCSE e Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale si è fortemente ridotta e considerando solo i creditori bilaterali, cioè i paesi, nel 2021 la Cina deteneva il 56 per cento del debito Africano, seguita da nuovi creditori come India, Arabia Saudita ecc… Una quota crescente di debito è quella verso creditori privati cioè coloro che negli anni passati hanno acquistato titoli di debito di paesi africani perché più redditizi di quelli dei paesi OCSE. Questo è il caso di alcuni paesi come Ghana, Zambia, Costa d’Avorio e Kenya stesso. L’aumento dei tassi di riferimento americani ed europei dovuto alla stretta monetaria di FED e BCE degli anni recenti ha determinato situazioni di grande difficoltà per questi paesi. Le iniziative messe in campo dalla comunità internazionale anche per via della pandemia da Covid-19, prima la DSSI, Debt Service Suspension Initiative, nel 2020, e successivamente il cosiddetto Common Framework, non hanno portato a risultati concreti; solo alcuni paesi sono riusciti a concordare ristrutturazioni del debito, Zambia, ma dopo tre anni di negoziati. Anche perché la presenza dei nuovi paesi creditori, leggi Cina, e dei creditori privati rende il problema molto complesso.

In realtà un legame fra problema del debito ed adattamento climatico si sta già realizzando con varie forme di ‘debt for climate’ o ‘debt for nature swaps’, che vedono il coinvolgimento sia dei paesi OCSE che della Cina. Esistono varie forme di conversione del debito, ma in quasi tutti i casi vi è un condono del debito a fronte di progetti importanti di intervento sull’adattamento climatico, e spesso in questi progetti il paese beneficiario è affiancato da una organizzazione internazionale, pubblica o meno, specializzata nell’argomento. Belize ed Ecuador hanno concluso accordi di questo tipo con i creditori e per valori importanti dell’ordine di centinaia di milioni di dollari. Paesi come Senegal, Sudan, Etiopia, Camerun e Kenya, solo per citarne alcuni, potrebbero beneficiare moltissimo da programmi di debt for climate swaps.

L’Italia ha una lunga tradizione iniziata negli anni novanta e rafforzata con la legge 209 del 2000. Proprio con il Kenya alla fine del 2006 viene firmato un accordo di debt for development swap, il Kenya-Italy Debt for Development Programme (KIDDP), che prende avvio nel 2007 per 10 anni e poi esteso di altri 5 anni. Si trattava di circa 44 milioni di euro da utilizzare in programmi di sviluppo, quindi non una cifra enorme, ma a distanza di anni non solo l’impatto dei progetti finanziati è stato mediamente positivo ma soprattutto continua ad essere conosciuto ed apprezzato dai ministeri Kenyoti coinvolti. Oggi l’Italia non ha crediti significativi con il Kenya, ma il Piano Mattei poteva essere l’occasione per essere promotrice come paese di una iniziativa di conversione del debito, di cui contrariamente a quelle della fine degli anni novanta e i primi anni duemila si sente la mancanza a livello internazionale. Certo qui l’ambizione deve sposarsi con la costruzione di strutture e strumenti politicamente credibili e sicuramene non si può fare da soli, ma bisogna misurarsi davvero con i partner africani e almeno con qualche altro paese europeo. Purtroppo questa prospettiva più ampia sembra al momento mancare al Piano Mattei; qualche progetto in qualche paese sarà realizzato, l’ENI farà la sua parte, del resto la sta già facendo, si dirà che questo Piano ha contribuito a ridurre i flussi migratori e magari questo basta anche per il pubblico italiano, ho forti dubbi che possa essere considerata una svolta significativa dai paesi africani.