Un Piano Comboni, non Mattei
Discutere brevemente del Piano Mattei non è facile perché è un documento piuttosto ampio e articolato, che contiene diverse linee e settori di intervento. Non intendo quindi commentare qui l’intero documento ma mi concentrerò su alcuni aspetti che ritengo cruciali e particolarmente significativi.
Credo che la prima cosa da sottolineare è che bisogna apprezzare che un governo italiano, soprattutto in questi tempi, abbia rivolto –almeno ufficialmente– un’attenzione così forte al continente africano, e abbia sviluppato una riflessione e addirittura un vero e proprio “Piano” con una strategia e una serie di proposte di intervento, sebbene non tutte definite nei particolari. Questa attenzione, tuttavia, rivela un suo primo limite laddove conferma un discutibile atteggiamento storico dei paesi del Nord del mondo che troppo spessi decidono se e come “aiutare” il Sud del Mondo senza prima almeno ascoltarlo seriamente. Non è un caso che il Presidente della Commissione dell’Unione Africana ed ex Primo Ministro del Chad Moussa Faki Mahamat all’annuncio del piano a gennaio scorso abbia dichiarato “African countries would have liked to have been consulted before Italy rolled out its plan”.
Se da un lato è vero che l’Italia negli ultimi decenni ha dato una certa priorità alla sua cooperazione con l’Africa e abbia finanziato numerosi progetti –governativi e non governativi–, certamente ciò è stato fatto senza sufficiente coordinamento e senza una strategia ben definita, e investendo risorse non sempre adeguate. Pertanto, in linea di principio, un Piano che preveda sia un aumento delle risorse sia del coordinamento è certamente benvenuto, anche come possibile rafforzamento della nostra politica estera.
Ciononostante, senza voler dare un giudizio su un Piano che non è stato ancora realizzato e di cui mancano ancora numerosi dettagli, anche finanziari, vorrei sottolineare alcune caratteristiche che lasciano piuttosto perplessi. È evidente che molto dipenderà, come in tanti piani del genere, da come e in che misura il Piano sarà poi effettivamente realizzato, ma sia le premesse e l’impostazione sia gli obiettivi e la strategia sono già abbastanza chiari e meritano alcune riflessioni.
Una importante prima premessa su cui si basa tutto il Piano e che vorrei mettere in evidenza è l’idea secondo cui l’Africa offre grandi opportunità ed è di notevole interesse per l’Italia in quanto continente ricchissimo di risorse naturali il cui sviluppo potrebbe basarsi proprio su questa abbondanza, non ancora pienamente utilizzata. Questa, secondo una concezione economica purtroppo molto diffusa e non nuova, sarebbe la ricchezza (principale) del continente. Paradossalmente, quest’idea è anche molto diffusa in ambienti “antioccidentali” e “terzomondisti” che gridano allo scandalo di un continente “ricco” ma con tanta povertà, e che vedono proprio nell’accaparramento –prima coloniale poi post-coloniale– di tali risorse il problema principale dell’Africa.
Sebbene questa idea delle risorse naturali come principale ricchezza del continente abbia qualche fondamento geografico, finora ha avuto esiti, non solo economici, piuttosto negativi per i paesi del Sud del mondo, inclusa l’Africa specie subsahariana. Basare lo sviluppo economico del continente principalmente, sebbene non esclusivamente, sullo sfruttamento delle sue risorse naturali presenta diversi rischi e controindicazioni. Innanzitutto, è bene osservare che nel mondo i paesi che negli ultimi decenni sono riusciti a ridurre drasticamente la povertà e la fame e a incamminarsi su un sentiero di sviluppo sostenuto sono quasi tutti paesi che sono riusciti a diversificare le proprie economie e non hanno basato il proprio sviluppo produttivo principalmente sulle risorse naturali, abbondanti o meno che fossero. Molti paesi asiatici sono un ottimo esempio. Un’eccezione sono alcuni paesi esportatori di petrolio, che non sono certo però un modello di sviluppo equo e sostenibile.
Al contrario, la maggior parte delle economie africane sono il caso più eclatante di economie che anche dopo l’indipendenza e fino a oggi non hanno significativamente diversificato la propria matrice produttiva e che restano fortemente dipendenti dall’esportazione di poche commodities, ossia dallo sfruttamento delle proprie risorse naturali (agricole, forestali, fossili, minerarie, …). Nella letteratura scientifica che si occupa di questi temi si parla a tale proposito di “estrattivismo” (o neo-estrattivismo). Non è un caso che l’Africa subsahariana abbia allo stesso tempo sia le economie meno diversificate e più agricole sia la maggiore incidenza di povertà e insicurezza alimentare, rispetto alle altre regioni del Sud del Mondo.
In secondo luogo, le economie del Sud del mondo che si basano sulle risorse naturali sono anche economie con i livelli più alti di disuguaglianza, per diversi motivi. Uno dei principali è che la distribuzione dei benefici derivanti dallo sfruttamento, molto spesso insostenibile, delle risorse naturali è estremamente iniqua. Ad esempio, quei settori sono anche quelli col maggior sfruttamento –diretto o indiretto– del lavoro. Se parliamo di agricoltura, i contadini che producono commodities destinate ai mercati globali sono molto spesso costretti ad accettare prezzi infimi; oppure, se parliamo di settori minerari, la distribuzione del reddito tra salari e profitti è profondamente ingiusta. Per non parlare delle condizioni di lavoro, del lavoro minorile, del lavoro delle donne, ecc. Il lavoro “decente”, per usare un’espressione dell’ILO, in questi settori è un miraggio.
In terzo luogo, c’è una letteratura scientifica che ha analizzato la performance delle economie con abbondanza di risorse naturali e ha concluso che tale abbondanza invece che essere necessariamente una “benedizione” in realtà può essere una “maledizione”; infatti, è stata coniata l’espressione “resource curse”. I molteplici e profondi effetti negativi di questa “maledizione” che sono stati messi in luce, e che qui non possiamo illustrare, sono di varia natura: economici, politici, sociali, ambientali, e altri. La maggior parte degli studiosi concordano che tale “maledizione” non sia né universale né inevitabile, ma che si manifesti in certe specifiche condizioni, soprattutto istituzionali. Purtroppo, tali condizioni sono proprio quelle che troviamo nella maggior parte dei paesi africani.
In quarto luogo, lo sfruttamento delle risorse naturali nei paesi del Sud del mondo ha avuto e sta avendo impatti devastanti sugli ecosistemi, soprattutto a causa degli assetti istituzionali di quei paesi e del ruolo dei gruppi di interesse esterni. Senza entrare nei dettagli, è ormai evidente anche dal punto di vista scientifico che nella maggior parte dei casi uno sviluppo economico basato principalmente sulle risorse naturali è insostenibile e produce effetti ambientali negativi e irreversibili, non solo in quei paesi e su quelle popolazioni ma su tutto il pianeta e a lungo termine, come ad esempio il cambiamento climatico. In Africa abbiamo purtroppo numerosi esempi di tali impatti ambientali, anche con responsabilità italiane, come ad esempio in Nigeria. Se si prendesse sul serio il concetto di transizione ecologica (inclusa quella energetica), sarebbe indispensabile ridurre gradualmente e non invece aumentare l’utilizzo di risorse naturali non rinnovabili, come quelle fossili, o di quelle rinnovabili molto lentamente, che rappresentano “global commons”. L’Italia dovrebbe mettere al centro del Piano la transizione ecologica in Africa piuttosto che l’estrazione di fossili, di cui purtroppo è già protagonista in quel continente.
Pertanto, l’enfasi del Piano Mattei sulle risorse naturali come leva per lo sviluppo del continente appare assai discutibile e preoccupante perché vuol dire sostanzialmente né voler cambiare e diversificare la matrice produttiva africana né renderla davvero sostenibile, ma al contrario proseguire con un approccio estrattivista, sebbene addolcito da interventi sociali di accompagnamento. Da questo punto di vista, c’è ben poco di innovativo nel Piano Mattei: al contrario, si ripropongono vecchi modelli di crescita senza sviluppo, con alti rischi di iniquità e insostenibilità. La presenza di interventi collaterali di carattere sociale appare solo come un accompagnamento atto a creare consenso e rendere il Piano più accettabile. Inoltre, l’entità degli investimenti in campo sociale (es. sanità e istruzione) non è chiara e solleva il quesito sulle proporzioni di questi ultimi rispetto a quelli fossili. L’Africa ha un grande bisogno di investire sulle persone, sulla loro salute e sulle loro conoscenze, ma non semplicemente per motivi umanitari e per garantire certi diritti fondamentali: l’Africa ha bisogno di enormi investimenti sulle persone, perché sono gli africani e soprattutto le africane, piuttosto che le risorse naturali, il vero motore dello sviluppo del continente, come ci hanno insegnato Amartya Sen, Mahbub ul Haq e tutto il lavoro dell’UNDP.
È bene anche osservare che, purtroppo, molto spesso sono proprio le élite predatorie africane al potere –specie nei contesti meno democratici–che in combutta con gruppi di interesse esterni hanno di fatto conservato l’approccio estrattivista, grazie anche alle rendite di cui possono usufruire. Una volta a Ouagadougou il locale rappresentante della Banca Mondiale, un africano, mi disse che non c’era nulla di male in questo modello, perché rappresentava semplicemente la sacrosanta applicazione della teoria dei vantaggi comparati. Diversi economisti strutturalisti e/o eterodossi hanno dimostrato la fallacia di questa teoria, almeno in questa versione.
Oltre ad affermare l’importanza dello sfruttamento delle risorse naturali per lo sviluppo dell’Africa, dobbiamo altresì notare che il Piano sottolinea l’utilità di tale sfruttamento anche per l’Italia, un’utilità che poi è fra le ragioni principali dell’elaborazione del Piano. Anche quest’idea a sua volta è deleteria, perché rivela che chi ha elaborato il Piano pensa ai nostri approvvigionamenti di combustili fossili invece di pensare piuttosto alla nostra transizione ecologica. Assicurarsi tali approvvigionamenti dai paesi africani potrebbe sembrare un’astuta operazione di diversificazione delle nostre forniture energetiche, sulle orme di Mattei, e invece nel 2024 significa soltanto avere idee obsolete e perniciose.
A proposito di Mattei, certamente un grande italiano, il nome del Piano rivela la sua idea guida: approvvigionarsi di fossili (nonché bloccare i migranti) attraverso uno scambio con l’Africa. Tuttavia, proprio questa idea guida, come ho cercato di argomentare, è profondamente inadeguata, sia per l’Africa sia per noi. Invece di un Piano Mattei, ci sarebbe invece bisogno di un (nuovo) Piano Comboni. Il grande Daniele Comboni, un secolo prima di Mattei, aveva elaborato un “Piano per la rigenerazione dell’Africa”, il cui principio era “salvare l’Africa con l’Africa”, si basava su un grande fiducia nelle capacità dei popoli africani, e intendeva investire principalmente sulle persone.