L’Unione Europea, calamita o modello?
Nel 1951, De Gasperi, riferendosi al progetto di Comunità europea di difesa poi miseramente fallito, disse: ”Se noi costruiremo soltanto amministrazioni comuni, senza una volontà politica superiore vivificata da un organismo centrale nel quale le volontà nazionali si incontrino, si precisino, si animino in una sintesi superiore, noi rischieremo che questa attività europea appaia, al confronto della vitalità nazionale particolare, senza calore, senza vita ideale … Anche se non tutta la costruzione è perfetta, occorre che sin da ora se ne vedano le mura maestre”.
L’Europa non è più quella che è stata finora, ma non sappiamo ancora quel che diventerà. La domanda che dobbiamo farci è se, dopo la caduta del Muro, ‘l’Europa s’è desta’: se, da sonnambula, traumatizzata dalla seconda guerra mondiale, succube durante quella ‘fredda’, da consumatrice può diventare produttrice di sicurezza, per sé stessa e per l‘intero sistema dei rapporti internazionali. Gli eventi in Ucraina hanno confermato quanto l’Europa fatichi ad imporsi come interlocutore persino nelle questioni che riguardano da vicino.
Il fatto è che l’Unione deve vedersela con un mondo globalizzato, nel quale la sua presenza appare appannata, scarsamente incisiva. Mortificata dal ripiegamento unilateralista degli altri principali attori, russi, cinesi, persino americani, pare sostanzialmente eterodiretta, costretta ad agire soltanto reattivamente. Unico attore internazionale intrinsecamente multilateralista, perché geneticamente tale, deve invece decidersi a tradurre il suo patrimonio politico (l’acquis) in un progetto condiviso.
Profetica è stata la convinzione di Jean Monnet, che sarebbero state le crisi ad alimentare la ‘finalità politica’ implicita nel processo di integrazione europeo. Così è infatti stato dopo la crisi di Suez, la Guerra del Kippur, la caduta del Muro. I vari ‘documenti strategici’ che l’Unione ha man mano formulato da allora, da quello di Solana del 1993 a quello della Mogherini del 2013, alla ‘bussola strategica’ di Borrell di quest’anno hanno progressivamente indicato la direzione, non ancora le modalità per percorrerla.
Va peraltro considerato che la struttura dell’Unione è divisa, come la Gallia di Giulio Cesare, ‘in partes tres’. Non soltanto fra Cattolici, Protestanti ed Ortodossi, quanto fra mercato e una moneta unici, retti dalla Commissione; una politica di Giustizia e Affari Interni che rimarrà collaborativa, per la diversità dei vari contratti sociali nazionali; e una Politica Estera e di Sicurezza Comune, che rimarrà intergovernativa per la stessa eterogeneità e variabilità delle esigenze internazionali.
A quest’ultimo proposito, dopo la caduta del Muro, il ‘big bang’ dell’allargamento a Ventotto consacrò la raggiunta maturità politica della Comunità europea. Ogni ritardo avrebbe rinnegato la propria ‘ragione sociale’. Si era sperato che l’immissione di un ‘sangue nuovo’ ne avrebbe vivificato l’originaria vocazione politica. Ne risultò invece un appesantimento dei meccanismi decisionali interni. Da allora, comunque, l’Unione ha cambiato pelle, emergendo da struttura economico-sociale diretta dalla Commissione, necessariamente tecnocratica, comunitaria, per presentarsi finalmente anche come Unione politica, intergovernativa, manovrata invece dal Consiglio. Per il cui miglior funzionamento il Trattato di Lisbona ha concesso il ricorso alle ‘geometrie variabili’ che le circostanze potranno suggerire, e alle ‘Cooperazioni strutturate rafforzate’ fra Stati più determinati.
Iniziative ristrette ad alcuni Stati membri, per conto anche se non per formale incarico dell’Unione, sono già state impostate. Per assicurare una maggiore visibilità europea non soltanto nei confronti di Mosca, ma anche nei Balcani, in Medioriente, Libia e Sahel, persino verso l’Africa, l’Indo-Pacifico, l’America Latina, regioni che la Guerra fredda ha relegato ai margini della scena internazionale. Non agitando un’improbabile spada, bensì valorizzando le ragioni del processo integrativo europeo.
Prima di potersi rivelare efficiente, la politica estera dell’Unione deve rendersi visibile e credibile. Condizionata dall’assertività altrui, l’Europa rimane invece interdetta, in mezzo al guado. Vi è chi auspica di ‘neutralizzarne’ l’operato, mentre altri si spingono ad invocare l’istituzione di un esercito europeo: gli uni per estrarla da un agone internazionale sempre più impegnativo; gli altri invece anteponendo il carro militare all’indispensabile trazione politica. Un esercito europeo in piena regola, oltre ai contingenti predisposti per eventuali ‘operazioni di pace’, presuppone un’unità di comando, rischiando altrimenti di presentarsi come un mero ‘ruggito del topo’.
Il presidente del fallito progetto di Costituzione, Giscard d’Estaign, disse che si trattava di decidere se l’Europa dovesse rimanere uno spazio (economico-sociale) o diventare una potenza (militare). E’ invece piuttosto di potere (politico), essenzialmente normativo, che si dovrebbe trattare. Nell’utilizzo del suo considerevole ma ancora flebile ‘forza gentile’ (soft). Paradossalmente, è infatti l’allargamento dell’UE, non quello della NATO, che il Cremlino teme, per i maggiori rischi di contaminazione che ne risulterebbero sulla popolazione di una Russia che, rinnegando le aperture di Gorbaciov, è tornata ad anteporre i cannoni al burro.
Nel 2017, l’Unione affermò il proposito di “agire assieme, qualora necessario a velocità e intensità differenziate, ma nella medesima direzione, così come abbiamo fatto in passato, in conformità con i Trattati e mantenendo la porta aperta a coloro che vorranno associarsi in seguito”. A quest’ultimo proposito, un suo ulteriore allargamento non è più ipotizzabile, tanto più in presenza di una serie di dissociazioni formali (Brexit) o tendenziali (Polonia, Ungheria). Jan Zielonka, dall’Istituto Universitario di Fiesole, raccomandava di “uscire dall’ossessione istituzionale”. Romano Prodi, da Presidente della Commissione europea, proponeva “tutto salvo l’adesione”. E Macron raccomanda oggi un “accesso graduale, in una convergenza politica piuttosto che giuridica”.
Nell’ottobre scorso, per iniziativa di quest’ultimo, si è svolta a Praga la prima riunione di una “Comunità politica europea” comprendente i quarantaquattro stati europei, membri o potenziali candidati all’Unione. Perché la ‘prospettiva europea’ possa tornare a fungere da calamita, non è all’adozione di esiti istituzionali uniformi che l’Unione può ulteriormente ricorrere, dovendosi invece proporre come modello istituzionale radicato nei principi dell’internazionalismo liberale.
A tal fine, l’Unione, sia pur con l’opportuna gradualità ma con maggior decisione, dovrà procedere dall’impostazione funzionale di Monnet verso il progetto federale caro a Spinelli, scartando le strettoie della mera sussidiarietà impostat dall’Atto Unico del 1986. La struttura dell’Unione, che Sabino Cassese definisce ‘ultra-nazionale’ piuttosto che sovranazionale, va sorretta dalla consapevolezza del sopravvenuto maggior comune denominatore degli specifici interessi europei. Nell’amalgamare quel che Ernest Renan, antico studioso delle civiltà, definiva la ‘volontà di vivere assieme’.
Se la strada è da tempo tracciata, i viandanti e la destinazione sono diversi. Bisogna tuttora chiarire la natura e lo scopo del progetto politico europeo. Che vada al di là di una promessa di maggior benessere economico. Riscoprire, in altre parole, la forza civile dell’Europa.