Sotto l’incalzare di una epidemia che ha sconvolto la vita di milioni di persone l’Unione Europea ha assunto decisioni che segnano una “svolta”.
Intanto la dimensione delle misure finanziarie: 1000 miliardi per il bilancio comunitario, 750 miliardi per il Next Generation EU (più noto come Recovery Fund), 100 miliardi del programma Sure per il contrasto alla disoccupazione, 240 miliardi per la linea MES dedicata all’emergenza sanitaria. Se si aggiungono i 1000 miliardi di titoli acquistati dalla BCE, i 200 miliardi per il Fondo di garanzia BEI a favore delle imprese, il congelamento del Patto di Stabilità e la deroga ai vincoli sugli aiuti di Stato, si può ben dire che l’Europa sta facendo la sua parte. Il tutto deciso in poco più di due mesi, un tempo assolutamente rapido rispetto alle consuetudini dell’Unione.
Ma non è solo la quantità delle risorse a segnare una svolta. Per la prima volta la UE vara un grande piano di investimenti a debito comune garantito dal bilancio comunitario a cui ogni paese concorre pro quota. Per la prima volta le risorse per alimentare il Fondo saranno reperite emettendo eurobond sul mercato dei capitali. E infine per la prima volta una quota consistente degli investimenti - quasi il 60% - sarà a dono, senza vincolo di rimborso.
Già solo questo spiega perché il negoziato sia stato lungo e duro, dovendo ogni Primo Ministro rispondere delle decisioni alla propria opinione pubblica e al proprio Parlamento.
Un negoziato così complesso, chiamato a comporre interessi e orientamenti di 27 paesi, ha dovuto scontare anche compromessi, alcuni dei quali di segno negativo come la riduzione nel bilancio comunitario delle risorse per ricerca, digitalizzazione, decarbonizzazione, migrazioni, cultura, formazione, programmi Erasmus. Riduzioni su cui ha levato immediatamente la sua voce il Parlamento Europeo che avendo nelle mani il voto vincolante di approvazione del bilancio, potrà e dovrà pretendere significative correzioni. Così come attenuate sono le condizionalità sugli standard democratici che ciascun paese è chiamato a rispettare e tutelare. E quel che accade in Ungheria e in Polonia dice quanto sia pericoloso derogare a irrinunciabili valori e principi fondativi dell’Unione Europea.
E tuttavia cinque giorni di duro negoziato hanno prodotto un esito tutt’altro che scontato, rafforzando l’Unione Europea e la sua coesione.
Non sfugge a nessuno, infatti, che intorno alle scelte di queste settimane si è giocato ancora una volta lo scontro tra chi privilegia una dimensione intergovernativa e chi invece vuole un’Europa comunitaria in una prospettiva federale. Non stupisce naturalmente: fin dalla sua nascita il processo di integrazione è vissuto sulla coesistenza di intergovernativà - rappresentata dal Consiglio Europeo e dai Consigli ministeriali - e di comunitarizzazione rappresentata dalla Commissione Europea, dal Parlamento Europeo, dalla Corte di Giustizia e dalla BCE. Nel disegno dei padri fondatori la dinamica istituzionale avrebbe dovuto conoscere via via una graduale riduzione della dimensione intergovernativa a vantaggio di una progressiva estensione della comunitarizzazione. Il processo si è rivelato in realtà più complesso perché mano a mano che le politiche di integrazione crescevano, cresceva anche la volontà dei governi di essere pienamente coinvolti nelle decisioni e di esercitarne il controllo. Lo si è visto in modo plastico durante la crisi economica 2008/2015 quando ogni decisione significativa - a partire dalla gestione del collasso greco - è stata concentrata nelle mani di Ecofin e del Consiglio Europeo.
Anche sotto questo punto di vista le discussioni di queste settimane hanno introdotto delle novità importanti, a partire da un rafforzamento delle responsabilità in capo alla Commissione. Se è vero che il negoziato si è sviluppato tra i governi, è altrettanto vero che le proposte sul tavolo le ha messe la Commissione Europea a cui competerà la completa gestione non solo del bilancio, ma anche del Next Generation EU. L’erogazione delle risorse è vincolata alla presentazione da parte di ogni Paese di piani di investimento e programmi di riforme, ma nessun Paese avrà diritto di veto sui piani altrui. Le risorse saranno reperite sul mercato dei capitali e garantiti dal bilancio comunitario gestito dalla Commissione. Insomma: in un passaggio difficile i governi dell’Unione Europea hanno scelto di scommettere su maggiore coesione e condivisione di comuni responsabilità, rilanciando l’ambizione del “sogno europeo”.
Una scelta che pone una triplice sfida.
Alla Commissione Europea spetta di dimostrare di essere all’altezza di guidare questa nuova fase del processo di integrazione, implementando con rapidità le misure decise e dando corso alle scelte - green economy, digitalizzazione, ricerca, formazione, innovazione tecnologica - proposte dalla Presidente Von der Leyen per dare all’Europa uno sviluppo di più alta e equa qualità.
Ai 27 Paesi dell’Unione il dovere di mettere in campo riforme e programmi di investimento capaci davvero di corrispondere alle aspettative dei cittadini alimentando un circuito virtuoso di crescita, modernizzazione, creazione di lavoro e redistribuzione di ricchezza e opportunità.
All’Unione Europea - ed è la sfida più impegnativa - la capacità di affermarsi come un player politico e economico in grado di svolgere un ruolo attivo e propositivo per la ricostruzione di un sistema multilaterale di governance, per una apertura dei mercati a condizioni di reciprocità e per una guida democratica della globalizzazione.
Sfide che tutte per essere vinte riconducono a una scelta di fondo: scommettere sull’Unione Europea e su una integrazione politica, economica, sociale sempre più intensa e organica. In un mondo globale nessuna nazione può farcela da sola. Tanto meno quando si deve competere con players con dimensioni demografiche, capacità produttive, potenzialità di crescita, disponibilità di risorse enormi. In un mondo grande ogni nazione europea è piccola. Ma se le nazioni europee mettono a fattor comune il loro potenziale finanziario, tecnologico, produttivo, culturale e sociale, l’Europa è un protagonista che al mondo ha molto da dare e da dire.
L’Europa alla prova
Sotto l’incalzare di una epidemia che ha sconvolto la vita di milioni di persone l’Unione Europea ha assunto decisioni che segnano una “svolta”.
Intanto la dimensione delle misure finanziarie: 1000 miliardi per il bilancio comunitario, 750 miliardi per il Next Generation EU (più noto come Recovery Fund), 100 miliardi del programma Sure per il contrasto alla disoccupazione, 240 miliardi per la linea MES dedicata all’emergenza sanitaria. Se si aggiungono i 1000 miliardi di titoli acquistati dalla BCE, i 200 miliardi per il Fondo di garanzia BEI a favore delle imprese, il congelamento del Patto di Stabilità e la deroga ai vincoli sugli aiuti di Stato, si può ben dire che l’Europa sta facendo la sua parte. Il tutto deciso in poco più di due mesi, un tempo assolutamente rapido rispetto alle consuetudini dell’Unione.
Ma non è solo la quantità delle risorse a segnare una svolta. Per la prima volta la UE vara un grande piano di investimenti a debito comune garantito dal bilancio comunitario a cui ogni paese concorre pro quota. Per la prima volta le risorse per alimentare il Fondo saranno reperite emettendo eurobond sul mercato dei capitali. E infine per la prima volta una quota consistente degli investimenti - quasi il 60% - sarà a dono, senza vincolo di rimborso.
Già solo questo spiega perché il negoziato sia stato lungo e duro, dovendo ogni Primo Ministro rispondere delle decisioni alla propria opinione pubblica e al proprio Parlamento.
Un negoziato così complesso, chiamato a comporre interessi e orientamenti di 27 paesi, ha dovuto scontare anche compromessi, alcuni dei quali di segno negativo come la riduzione nel bilancio comunitario delle risorse per ricerca, digitalizzazione, decarbonizzazione, migrazioni, cultura, formazione, programmi Erasmus. Riduzioni su cui ha levato immediatamente la sua voce il Parlamento Europeo che avendo nelle mani il voto vincolante di approvazione del bilancio, potrà e dovrà pretendere significative correzioni. Così come attenuate sono le condizionalità sugli standard democratici che ciascun paese è chiamato a rispettare e tutelare. E quel che accade in Ungheria e in Polonia dice quanto sia pericoloso derogare a irrinunciabili valori e principi fondativi dell’Unione Europea.
E tuttavia cinque giorni di duro negoziato hanno prodotto un esito tutt’altro che scontato, rafforzando l’Unione Europea e la sua coesione.
Non sfugge a nessuno, infatti, che intorno alle scelte di queste settimane si è giocato ancora una volta lo scontro tra chi privilegia una dimensione intergovernativa e chi invece vuole un’Europa comunitaria in una prospettiva federale. Non stupisce naturalmente: fin dalla sua nascita il processo di integrazione è vissuto sulla coesistenza di intergovernativà - rappresentata dal Consiglio Europeo e dai Consigli ministeriali - e di comunitarizzazione rappresentata dalla Commissione Europea, dal Parlamento Europeo, dalla Corte di Giustizia e dalla BCE. Nel disegno dei padri fondatori la dinamica istituzionale avrebbe dovuto conoscere via via una graduale riduzione della dimensione intergovernativa a vantaggio di una progressiva estensione della comunitarizzazione. Il processo si è rivelato in realtà più complesso perché mano a mano che le politiche di integrazione crescevano, cresceva anche la volontà dei governi di essere pienamente coinvolti nelle decisioni e di esercitarne il controllo. Lo si è visto in modo plastico durante la crisi economica 2008/2015 quando ogni decisione significativa - a partire dalla gestione del collasso greco - è stata concentrata nelle mani di Ecofin e del Consiglio Europeo.
Anche sotto questo punto di vista le discussioni di queste settimane hanno introdotto delle novità importanti, a partire da un rafforzamento delle responsabilità in capo alla Commissione. Se è vero che il negoziato si è sviluppato tra i governi, è altrettanto vero che le proposte sul tavolo le ha messe la Commissione Europea a cui competerà la completa gestione non solo del bilancio, ma anche del Next Generation EU. L’erogazione delle risorse è vincolata alla presentazione da parte di ogni Paese di piani di investimento e programmi di riforme, ma nessun Paese avrà diritto di veto sui piani altrui. Le risorse saranno reperite sul mercato dei capitali e garantiti dal bilancio comunitario gestito dalla Commissione. Insomma: in un passaggio difficile i governi dell’Unione Europea hanno scelto di scommettere su maggiore coesione e condivisione di comuni responsabilità, rilanciando l’ambizione del “sogno europeo”.
Una scelta che pone una triplice sfida.
Alla Commissione Europea spetta di dimostrare di essere all’altezza di guidare questa nuova fase del processo di integrazione, implementando con rapidità le misure decise e dando corso alle scelte - green economy, digitalizzazione, ricerca, formazione, innovazione tecnologica - proposte dalla Presidente Von der Leyen per dare all’Europa uno sviluppo di più alta e equa qualità.
Ai 27 Paesi dell’Unione il dovere di mettere in campo riforme e programmi di investimento capaci davvero di corrispondere alle aspettative dei cittadini alimentando un circuito virtuoso di crescita, modernizzazione, creazione di lavoro e redistribuzione di ricchezza e opportunità.
All’Unione Europea - ed è la sfida più impegnativa - la capacità di affermarsi come un player politico e economico in grado di svolgere un ruolo attivo e propositivo per la ricostruzione di un sistema multilaterale di governance, per una apertura dei mercati a condizioni di reciprocità e per una guida democratica della globalizzazione.
Sfide che tutte per essere vinte riconducono a una scelta di fondo: scommettere sull’Unione Europea e su una integrazione politica, economica, sociale sempre più intensa e organica. In un mondo globale nessuna nazione può farcela da sola. Tanto meno quando si deve competere con players con dimensioni demografiche, capacità produttive, potenzialità di crescita, disponibilità di risorse enormi. In un mondo grande ogni nazione europea è piccola. Ma se le nazioni europee mettono a fattor comune il loro potenziale finanziario, tecnologico, produttivo, culturale e sociale, l’Europa è un protagonista che al mondo ha molto da dare e da dire.