Biden-Trump, la Rivincita
Il match dell’andata è andato bene per Biden, che nel novembre del 2020 giocava fuori casa ma ha vinto con un distacco netto ma non travolgente. Il match di ritorno avrà luogo tra non molto, e stavolta l’outsider è Trump. Ora - grazie alla CNN, che ha mandato in onda su tutti gli schermi degli americani una lunga intervista all’ex-Presidente - non c’è dubbio che questo outsider sarà l’osso duro che ci si aspettava.
Trump è un seguace della teoria che la verità non è altro che la ripetizione di ciò che si vuol far credere: se nessuno grida più forte e più a lungo, qualunque affermazione assume tale qualità. Purtroppo, per quanto irritante, il metodo si è già dimostrato efficace nel passato, e la lunga, frenetica intervista della CNN dimostra che gli americani dovranno nuovamente avere a che fare con lui in futuro. Trump è un improvvisatore geniale, virtù coltivata negli anni dei suoi successi televisivi pre-politici, e non ha perso un atomo della sua martellante maniera di affrontare il dibattito. Non potrebbe esserci un candidato più anti-Biden di questo, né uno più pericoloso per la democrazia americana, perché ha ancora la capacità (pifferaio di Hamelin) di riunire le masse.
Non mancano gli americani disposti a lasciarsi abbindolare da Trump, anche se a molti appare come una figura da baraccone. Esiste infatti un risentimento stagnante nella società di questo paese, che crede in una promessa radiosa che non si manifesta per tutti, ma trova nella realtà momenti e luoghi di drammatica alienazione: e questa realtà è la sua forza. Il dialogo sociale negli States, come è noto, è ricco di affermazioni di superiorità intese a motivare l’adesione e la partecipazione ad una immagine tradizionale di ideale perfezione, che purtroppo - per quanto lodevole come obiettivo - resta sempre una aspirazione, non una conquista. Se le porte della “shining city on the hill” non si aprono per tutti, e se l’attrazione che esercita sui poveri della terra comporta che questi, per l’appunto, vi accorrono da ogni parte solo per trovarsi a contendere l’ingresso ai nativi che ritengono di avervi diritto per primi, la tensione che ne risulta gioca a favore di Trump, il grande rimescolatore dei pensieri torbidi, ed il negatore di ogni smentita.
E Biden? Biden proietta sempre la sua immagine di vecchio zio, benevola ma un po’ appannata -ahimè quando gli anni si contano, contano. Va detto però che non è un presidente inefficace, tutt’altro, specie se si tiene conto della esigua maggioranza di cui dispone. Questa non comprende entrambe le camere, e non c’è soluzione, in un paese in cui la spregiudicata politica del partito opposto, quando era al potere, ha creato una quasi inespugnabile maggioranza conservatrice alla Corte Suprema - spesso il punto di arrivo, convalida o cassazione degli atti di governo.
Ma anche prescindendo da queste considerazioni, è l’esistenza di un conflitto in Ucraina col potenziale di scatenare uno scenario apocalittico che lo rende per i Democratici pressoché non sostituibile con qualcuno che sarebbe inevitabilmente nuovo a simili responsabilità; Biden invece ha ormai dieci anni di Casa Bianca sulle spalle.
L’operato di Biden e dei suoi, per quanto ostacolato dalla esigua maggioranza, non è stato poco: se lo si paragona con quello delle amministrazioni precedenti si nota che buona parte del suo programma è stato realizzato, ed è un risultato migliore di quello di Obama - pur giovane e popolarissimo- che si era trovato ad affrontare una opposizione Repubblicana altrettanto se non più agguerrita. Giova ricordare che concluse il proprio doppio mandato con, in effetti, una sola grande riforma, quella della sanità (indiscutibilmente un passo importante, peraltro per nulla risolutivo di una delle più delicate lacune del paese), rinunciando a risolvere temi come l’ambiente, l’energia e l’istruzione.
Si sa che il potere usura chi lo ottiene, specialmente se non ne fa l’uso che gli elettori si aspettavano - o almeno ci prova in modo convincente. Se guardiamo all’indice di gradimento di Biden, lo troviamo deprimente: dopo una breve luna di miele con un elettorato che esprimeva sollievo per la fine (?) dell’era di Trump, dall’agosto del 2021 (catastrofica uscita dall’Afghanistan) per un anno intero il consenso è calato sotto la soglia di maggioranza, con un apice negativo nell’estate del 2022 quando è sceso al 38%, per poi risalire moderatamente ma costantemente al 42/43% di questi mesi. Anche qui, non si deve infierire eccessivamente: sarebbe certo meglio se fosse maggioritario, ma se si guardasse alla storia dei maggiori titolari della Casa Bianca si troverebbe che a questo punto del loro mandato molti dei più celebri non stavano meglio: Trump era al 38%, Obama al 45%, Reagan al 41%. D’altro canto, Kennedy era al 65%, dimostrando che l’usura del potere si dimostra reale, ma non va sopravvalutata. Forse per questo è apparso proprio ora un altro rampollo del clan Kennedy, Robert (figlio del Bob Kennedy che fu assassinato nel 1968) che probabilmente avrà ascolto proprio per il nome che porta, e che ufficialmente contende la designazione a Biden quale candidato Democratico alle presidenziali del 2024. Questo Kennedy è conosciuto per le sue posizioni anti-vax, scettiche su ambiente ed energia, spesso più vicine a quelle dei repubblicani conservatori che non ai suoi compagni di partito. Sarebbe in effetti un buon candidato per il partito Repubblicano: Trump avrà bisogno di un sostituto per Pence da includere nel suo “ticket”.
Certo, Biden ha i suoi anni. Ma ha anche l’esperienza parlamentare che ha accumulato durante tutto questo tempo, e che vale ancora di più di quella che ha ottenuto Obama alla Casa Bianca di quando era lui il Vice. Se l’amministrazione attuale ha potuto governare durante questi primi anni lo deve certamente a questo, non certo alla composizione del Congresso, che non la favorisce, ed è qui che il vecchio lupo di mare ha ancora qualche vantaggio su altri possibili concorrenti all’interno del suo partito. Qui gioca anche il fattore Kamala Harris, che è alle prese con l’impossibile missione di ogni Vice Presidente, quella di prepararsi a sostituire il Presidente in carica e allo stesso tempo essere invisibile (Biden stesso ne sa qualcosa); il suo apporto non deve però essere trascurato, perché è reale e insostituibile, non nella quotidiana azione del governo, bensì nel giorno di novembre del 2024 in cui si andrà a votare. Prescindere da Kamala in un colpo solo costerebbe milioni di voti femminili e afroamericani, le due colonne su cui si è costruita l’elezione di Biden alla sua carica attuale.
Per il futuro più lontano, non si dovrà invece perdere di vista il fatto che il partito può contare su una base ampia, che a Washington comprende già anche una nuova covata di parlamentari. Questi si stanno già facendo le ossa in questi anni, combattendo l’ondata conservatrice espressa da Trump; verrà il loro tempo, probabilmente presto, e saranno preparati. Ma oggi, anche se dalla lontana Europa l’orizzonte apparisse nebuloso, non è irrealistico pensare che il futuro governo degli Stati Uniti potrà essere affidato a una squadra che ne rappresenti la continuità