Il tempo della democrazia e della dittatura
Un ragazzo seduto per un’ora accanto a una ragazza carina avrà la sensazione che sia passato soltanto un minuto. Ma fatelo sedere su una stufa e un minuto gli sembrerà più lungo di un’ora. Questa è la relatività. L’esempio, attribuito ad Albert Einstein potrebbe stimolare una riflessione sul tempo in relazione/relatività con la guerra in Ucraina. È evidente - di là della situazione militare sul campo e degli sforzi diplomatici per provare a costruire la pace - che la misura del tempo in democrazia non è lo stessa nella dittatura. E che sarà la diversa misura del tempo a condizionare l’esito del conflitto.
Una prima conferma viene dall’introduzione delle sanzioni contro la Russia. Nell’immediato, l’effetto negativo è più pesante per chi le sanzioni le ha imposte (le democrazie), mentre sarà più incisivo, forse catastrofico, in tempi medio lunghi per la Russia dittatoriale. E questa diversa misura del tempo potrebbe condizionare la tenuta del regime. Finora, Mosca ha potuto fronteggiare il problema con stratagemmi e aggiramenti di varia natura, contando anche sulla complicità di Paesi alleati, e ha addirittura approfittato di aumenti dei prezzi, ma quando si svuoteranno i magazzini di materiale tecnologico e logistico l’apparato industriale e militare potrebbe paralizzarsi. Ne consegue che l’effetto sanzioni è condizionato dai diversi tempi di resistenza di chi le impone e di chi le subisce.
Nei Paesi europei, gli atteggiamenti dell’opinione pubblica verso la guerra hanno avuto un’immediata ricaduta politica, se si considerano la rivalutazione e il rilancio della NATO (soltanto qualche mese fa il presidente Macron aveva parlato di «morte cerebrale dell’alleanza»), la rinnovata adesione a valori europei e l’approvazione degli incrementi della spesa per la difesa. Dopo l’invasione russa, l’opinione pubblica occidentale, fino a qualche mese fa spaventata da ondate migratorie e propensa ad alzare muri, ha aperto le braccia a milioni di profughi ucraini. (Dimenticando quell’immensa fossa comune che continua ad essere il Mediterraneo).
Ma in tempi medi, la ricaduta sui prezzi delle materie prime, e quindi sulle bollette, le ondate di profughi, la sensazione che il conflitto stia diventando endemico e senza vie d’uscita potrebbero avere, sia pure in misura diversa da un Paese all’altro, un effetto opposto sulla sensibilità dei cittadini. Atteggiamento che si è già riflesso sulla tenuta dei governi. In Gran Bretagna, si è dimesso Boris Johnson. In Italia, è andata in confusione la maggioranza di governo e Mario Draghi ha annunciato le dimissioni. In Francia, tre settimane dopo la riconferma all’Eliseo, Emmanuel Macron ha perso la maggioranza all’Assemblea nazionale, mentre l’estrema destra e l’estrema sinistra hanno conquistato decine di seggi. In Germania, il cancelliere Scholz è in calo nei sondaggi e in difficoltà con gli alleati di governo. Tutti i governi europei si stanno confrontando con le conseguenze sociali ed economiche della riconversione degli approvvigionamenti energetici. In Germania, in particolare, crescono le preoccupazioni del comparto industriale - fortemente dipendente dalle forniture russe - e degli ecologisti, dopo la decisione di riaprire le centrali a carbone.
Del resto, l’opposizione dell’opinione pubblica alla guerra e l’indifferenza sul medio periodo sono sempre un formidabile alleato dei conflitti endemici: Afghanistan (senza pace dal 1975), ex Jugoslavia (dieci anni), Siria (undici anni), Yemen (sette anni) e, a ben vedere, persino il Donbass prima dell’invasione russa, (otto anni). Parliamo di conflitti che sono durati più della seconda guerra mondiale. Come immaginare la misura del tempo di questa guerra quando si sente dire che «l’Ucraina non riesce a vincere e la Russia non può perdere»?
La misura del tempo in democrazia potrebbe avere dunque effetti spiacevoli: grande compattezza e determinazione all’inizio, stanchezza e assuefazione in tempi più lunghi. In democrazia, la critica e la libertà d’espressione, nonostante il velato sospetto che colpisce chiunque provi a riflettere sulla politica di Mosca, cominciano ad insinuare dubbi sulle ragioni del conflitto e incoraggiano atteggiamenti meno manichei nelle èlite politiche ed economiche.
In Russia, l’opinione pubblica potrebbe avere tempi di reazione ad effetto rovesciato. La censura sui mezzi d’informazione, la repressione poliziesca e la propaganda del Cremlino sono riuscite in buona sostanza a contenere sentimenti pacifisti e di condanna dell’invasione. Ma in tempi medio/lunghi le crepe all’interno dell’apparato e le sofferenze imposte al popolo russo, oltre alla conta dei caduti (trentamila, secondo stime ufficiose, il doppio che in dieci anni di guerra in Afghanistan), potrebbero innescare rivolgimenti drammatici. Un auspicio, senza tuttavia dimenticare i tempi di resistenza di dittatura e autocrazie molto meno organizzate e molto meno potenti, da Milosevic a Gheddafi, per citare gli ultimi casi.
Ciò che non è relativizzabile è invece il tempo della Storia, l’orologio che sedimenta in modo inesorabile ragioni e cause del conflitto, quando ha ormai sepolto vittime e carnefici. Forse per questo le tragedie nel cuore dell’Europa si ripetono.