La Germania e le ricadute economiche della crisi Covid 19 - I parte
La Germania di fronte alla crisi del Covid 19 somiglia, come tanti altri Paesi, a un Giano bifronte. Se un volto guarda con preoccupazione alla questione sanitaria che sta stressando le pur efficaci strutture mediche ed ospedaliere, l’altro osserva con altrettanta preoccupazione la situazione economica.
I dati sono già molto chiari: la Germania è scivolata in recessione e il prodotto interno lordo si è ridotto del 2,2% nel primo trimestre rispetto al trimestre precedente, come annunciato dall'Ufficio federale di statistica. Il calo è stato di gran lunga il più forte dalla crisi finanziaria ed economica globale del 2009 e il secondo più forte dalla riunificazione tedesca. È sempre utile quando si parla dell’economia tedesca avere un quadro comparativo onde evitare di pensare al poco edificante “mal comune mezzo gaudio”: la Francia, ad esempio, si trova in una posizione economica molto peggiore della Germania: il suo deficit nel primo trimestre è stato del 5,8%, il più grande dalla fine della seconda guerra mondiale. Nemmeno nel 1968, quando le rivolte studentesche e gli scioperi generali paralizzarono la Francia, l'economia crollò così tanto. Anche altri Paesi dell'UE registrano perdite molto più elevate rispetto alla Germania: in Italia l'economia ha subito una contrazione del 4,7% nel primo trimestre, in Spagna del 5,2% e in Belgio del 3,9%.
Il governo federale prevede per il 2020 la recessione più grave della storia del dopoguerra. La produzione economica della più grande economia europea dovrebbe ridursi del 6,3%, nonostante ci si aspetti un recupero nella seconda metà dell'anno. Durante la crisi economica e finanziaria mondiale del 2009, il prodotto interno lordo tedesco era diminuito del 5,7% (la Commissione Europea prevede una contrazione dell’8,2% per la Francia, mentre in Spagna, Italia e Grecia la produzione economica rischia di crollare di oltre il nove per cento. Solo per Austria, Finlandia, Lussemburgo e Malta le previsioni sono migliori rispetto alla Germania).
La crisi globale innescata dal Covid 19, con l'interruzione delle catene di fornitura, pesa soprattutto sulle esportazioni, ma anche i consumi privati finiscono per risentirne in misura evidente.
La crisi dovrebbe essere superata, nei suoi tratti più drammatici, con i mesi di maggio e giugno, ma come mette in guardia Stefan Kooths dell’Instituts für Weltwirtschaft di Kiel, il ritorno alla normalità sarà molto graduale e ci vorranno anni per assorbire gli effetti della crisi, sempre a patto che non intervengano altre emergenze.
Se da un punto di vista finanziario la reazione allo shock sembra piuttosto buona - il Dax ha già recuperato circa il 40% delle perdite subite nei primi mesi dell’anno - la situazione sembra molto diversa se entriamo nel campo dell’economia reale: la disoccupazione sta crescendo e i profitti delle aziende stanno crollando. L'indice IFO dell'economia tedesca, strettamente correlato allo sviluppo dei profitti delle imprese del MSCI World, indica un calo dei profitti fino all'80%.
La crisi colpisce un'economia mondiale che dava chiari segnali di indebolimento già prima dello shock del Covid. L'intervento massiccio delle banche centrali ha per certi versi esaurito l’efficacia delle politiche monetarie e, a differenza della crisi finanziaria, questa volta l'economia è stata colpita in modo molto più ampio, rendendo più difficile la ripresa. Inoltre, si tratta di una crisi globale, non della crisi del sistema finanziario occidentale. La differenza tra i numeri della finanza e dell’economia reale non dovrebbe sorprendere: le banche centrali sono infatti le vere artefici della ripresa del mercato azionario, poiché hanno nuovamente immesso liquidità sui mercati su scala mai vista in precedenza. Pensiamo agli Stati Uniti, dove la Fed ha gonfiato il suo bilancio di 2.500 miliardi di dollari in sole cinque settimane e ora sta acquistando obbligazioni con rating sempre più basso. Il prossimo passo sarà l'acquisto di azioni, come stanno già facendo in Giappone. Tuttavia, solo una piccola parte di questa liquidità finisce nell'economia reale. Le stime suggeriscono che un buon 70 per cento della liquidità immessa nei mercati finisca, come una partita di giro, in altre parti del mercato finanziario. Non c'è da stupirsi che i mercati azionari siano più reattivi dell’economia reale nel mostrare segnali di ripresa.
Contrariamente a quanto si possa credere con un’analisi superficiale, la Germania è molto vulnerabile a uno shock economico internazionale che rischia di contrarre pesantemente il commercio estero. Non bisogna mai dimenticare che tutto il sistema tedesco è costruito su un modello molto spinto di export-led fortemente integrato nelle catene del valore globali e risponde quindi alle sue logiche che amano la stabilità nelle relazioni commerciali internazionali e non certo le difficoltà che si intravedono all’orizzonte.
Le misure che il Governo tedesco ha preso fin dal 3 marzo del 2020 si muovono in due direzioni: la prima cerca di affrontare i problemi immediati attraverso l’estensione dello strumento del Kurzarbeitergeld e il rafforzamento degli strumenti di finanziamento già esistenti a favore delle imprese per andare incontro alle difficoltà di liquidità; la seconda direzione guarda più lontano, a misure che possono strategicamente definire le modalità con le quali la Germania affronterà la crisi nel lungo termine e sono sostanzialmente ancora in fase di elaborazione.
Il metodo usato per definire questa strategia è il classico coordinamento a reti interconnesse che caratterizza il modello tedesco: consultazioni praticamente permanenti e su più tavoli tra Governo, Istituzioni, Lander, rappresentanti delle industrie, sindacati e mondo accademico.
Spostiamoci più vicino e cerchiamo di analizzare i punti focali su cui dovrà concentrarsi questo difficile lavoro.
Il primo tema ci riguarda da molto vicino e dovrebbe far chiarezza della pochezza argomentativa di molte superficiali analisi che vorrebbero la Germania disinteressata ai destini dei Paesi europei più in difficoltà, a cominciare da quelli dell’area del Mediterraneo e dell’Italia in particolare. Abbiamo già detto che l’economia tedesca è strettamente integrata, e quindi altamente vincolata, alle catene di valore globale: nello specifico questo significa che qualsiasi deficit produttivo a monte della catena si ripercuote immediatamente a valle, e se le produzioni di componentistica o di materie prime in Italia o in Cina si fermano o vanno in difficoltà, le ricadute sui processi produttivi dell’industria tedesca sono catastrofiche.
Il problema non è eludibile per via di una serie di motivi: molte aziende oggi si affidano alla produzione just-in-time con basse scorte di magazzino; inoltre, i componenti forniti sono spesso estremamente specializzati e adattati alle specificità della fase successiva della catena del valore e spesso vengono prodotti solo in una o poche aziende fornitrici. Per le aziende tedesche in attesa di prodotti primari cinesi o di componentistica italiana, quindi, spesso non ci sono fornitori alternativi in tutto il mondo che possano garantire gli stessi prodotti in tempi ragionevoli e a prezzi accettabili.
Se osserviamo le difficoltà che le filiere tedesche legate al mercato cinese stanno già incontrando e pensiamo alla sfasatura temporale con la quale il virus ha impattato sulle diverse economie (la chiusura degli impianti industriali in Cina ha raggiunto il suo apice all’inizio di febbraio) e ai problemi dell’industria in Italia, possiamo facilmente immaginare quali potrebbero essere le conseguenze per la Germania di una crisi verticale del sistema Italia. È sempre opportuno tenere ben presente questa dinamica quando ci accingiamo a valutare la politica europea di Berlino senza lasciarci andare a sterili diatribe ideologiche. La Germania non ha nessun interesse a una crisi del sistema industriale italiano. Può, naturalmente, sbagliare nel dare risposte alla crisi e favorire politiche europee non efficaci, ma non esiste nessuna volontà persecutoria nel perseguire scelte di politica economica miranti a mettere in difficoltà le imprese italiane. Sarebbe un suicidio per la Germania stessa.
Un secondo elemento di analisi riguarda le ricadute della pandemia sull’occupazione e sull’organizzazione del lavoro. Qui siamo soltanto a livello di scenari perché la situazione è in continua evoluzione. Come in Italia anche in Germania il primo dato che si è potuto riscontrare è stato l’aumento dell’utilizzo del telelavoro e del lavoro da casa. I punti critici sono due: in primo luogo, mentre in alcuni settori queste nuove (o vecchie) forme di lavoro sono immediatamente applicabili e addirittura migliorative della prestazione, in molti altri settori (sia nei servizi che in prestazioni professionali legate alla manualità) non lo sono affatto. In secondo luogo, c’è bisogno di una disciplina contrattuale di queste forme di lavoro più aggiornata e appropriata.
Se ci spostiamo ad analizzare i problemi dalla prospettiva della domanda di beni tedeschi, la situazione appare ancora più delicata. Da questo punto di vista è immediatamente percepibile come una contrazione delle importazioni da parte dei maggiori mercati di prodotti intermedi, beni di capitale e di consumo e servizi tedeschi sarebbe un danno enorme per l’intera economia. E la gravità di questo danno si staglia con una certa chiarezza; basti pensare che i volumi del commercio mondiale si ridurranno di oltre un punto percentuale valutando soltanto il calo della domanda cinese. Tradotto in cifre, con un volume annuo di esportazioni tedesche verso la Repubblica Popolare Cinese di quasi 100 miliardi di euro, la Germania ne sarà colpita in maniera particolarmente dura.
Se proiettiamo questo scenario su scala globale possiamo immaginare, secondo le stime dell’Ocse e nemmeno le più pessimistiche, una riduzione del commercio globale di circa 4 punti percentuale. Con un rapporto esportazioni/PIL del 47 per cento e importazioni del 41%, l'economia tedesca è molto più fortemente integrata nell'interdipendenza internazionale rispetto ad altre grandi economie (a titolo di confronto: le esportazioni della Francia corrispondono al 31 per cento del PIL, le importazioni al 32 per cento). Ciò si riflette anche nella quota dell'industria nel valore aggiunto, soprattutto nel settore automobilistico. La Germania sarà quindi colpita dalla crisi del Covid 19 in misura molto più grave di quanto si è soliti pensare in Italia, anche se, come vedremo, dispone di maggiori risorse per reagire che probabilmente gli consentiranno di rimbalzare prima e meglio..
In l’Italia, pensando agli effetti economici devastanti del virus, si pensa immediatamente alle ricadute sul consumo turistico, mentre per la Germania si pensa al reparto industriale. I numeri però ci dicono che anche per Berlino l’impatto sul settore turistico sarà un notevole problema: il consumo turistico in Germania vale circa 300 miliardi di euro annui e occupa circa 3 milioni di lavoratori (circa il 6,8% dell’occupazione totale nazionale). Il valore aggiunto legato alle industrie del settore turistico è stato pari a 105,3 miliardi di euro in relazione al prodotto interno lordo. Questa somma corrisponde al 3,9% del valore aggiunto totale del prodotto interno lordo in Germania. In termini di contributo di valore aggiunto sul prodotto interno lordo, l'industria del turismo (3,9 per cento) è quindi paragonabile al commercio al dettaglio (3,3 per cento) o all'industria meccanica (3,5 per cento).
Su questo versante, quindi, c’è da attendersi, oltre che da augurarsi, il sostegno tedesco a interventi strutturali da parte della Commissione europea in linea con quelli di cui ha certamente bisogno anche l’Italia.