L’integrazione è a senso unico?
Il concetto sociologico di “integrazione” è storicamente centrato sul processo di avvicinamento e sulle dinamiche di incontro tra una società ricevente ed una sopraggiunta componente di popolazione immigrata. Tale incontro, solitamente concepito e descritto come problematico per la difficoltà di assorbire all’interno della società maggioritaria persone “diverse” ed esterne al suo spazio politico e socio-culturale, risulta caratterizzato da una (spesso inquieta e turbata) rappresentazione di una distanza dello “straniero” dalla cultura dominante. Distanza che gli immigrati dovranno cercare di colmare al più presto (nel giro di una generazione, massimo due), uniformandosi ai valori e alle regole circostanti, eliminando e smussando le loro differenze “radicali” e, di fatto, inserendosi negli spazi che la società concede loro.
In effetti, pur in presenza di una grande varietà (per modalità, tempi, profondità e risultati) dei fenomeni di integrazione secondo i paesi di destinazione, le specifiche minoranze implicate e le particolari circostanze storiche e politiche, sembra esservi una costante nel tempo e nello spazio: l’integrazione tende, in passato come oggi, ad essere rappresentata e agita molto più come processo di adattamento unilaterale dei nuovi arrivati al contesto ospitante che come scambio culturale e interazione tra immigrati e autoctoni. Solitamente la società di destinazione immagina e articola l’inserimento dei migranti come funzionale e non “dannoso” ai suoi interessi e ai suoi assetti politici e socio-economici, secondo un punto di vista unicamente basato sullo sguardo, le esigenze e le logiche del paese di immigrazione. Si tratta di una declinazione difensiva della “questione” dell’integrazione, che coniuga la riaffermazione anacronistica di una supposta solidità ed omogeneità nazionale e l’irrigidimento dei propri “modelli” politici e sociali, con un’idea dei migranti come soggetti, nel migliore dei casi, da “acculturare” e portare “al livello” dei cittadini autoctoni e, nel peggiore, da includere gerarchicamente nel mercato del lavoro e comprimere e disinnescare nelle loro esplicite ed implicite richieste di trasformazione sociale, politica e culturale.
Se (mai) in passato, in alcuni luoghi, epoche o per alcune specifiche nazionalità, vi è stato un reale progetto politico animato da intenzioni di assimilazione e/o inclusione (per quanto spesso subordinata) e, con il paradigma multiculturale, di incorporazione e riconoscimento delle differenze, oggi all’immigrazione ed al migrante da integrare le cose non vanno molto meglio, anzi.
L’attualità dis-integrata
In questa epoca di confusione politica e culturale, di smarrimento e di forte deterioramento delle certezze sociali, economiche e politiche delle società europee, infatti, si sono decisamente accentuate rigidità, ostacoli, barriere e confini ai processi di integrazione, come più in generale alla migrazione tout court. La criminalizzazione delle migrazioni, compiutasi a partire dalla crisi dell’asilo innescata nel 2015, si accompagna ad un accresciuto livello di selettività e di degradazione dello statuto giuridico e materiale del migrante.
Per un verso, è aumentata la pressione verso i migranti per uniformarsi a modelli civici sempre più stringenti ed a requisiti di non facile ottemperanza anche per una parte dei cittadini autoctoni, come è evidente nel modello della civic integration, ormai diffuso in moltissimi paesi europei, la cui idea sottostante è che il migrante sia un soggetto da controllare in quanto potenziale minaccia alla sicurezza e all’integrità nazionale sottoponendolo a continui “tagliandi” di idoneità. Per l’altro, a livello per così dire strutturale, assistiamo alla proliferazione e alla diversificazione di confini fisici, giuridici, spaziali e sociali, alla implementazione di politiche di controllo, confinamento e respingimento dei migranti, all’uso programmato di regimi differenziali di diritti e di cittadinanza.
Sembra di trovarci, in tal senso, di fronte ad una concezione e ad un dispositivo fortemente selettivo dell’integrazione e della cittadinanza, organizzato su diversi livelli concentrici di natura sia giuridica che materiale, che filtra e dosa ingressi (peraltro oggi quasi tutti sbarrati), diritti, accesso al welfare, ma anche collocazione lavorativa e mobilità sociale. E ciò avviene, perlopiù, sulla base di decisioni spesso arbitrarie, come nella concessione del diritto di asilo, o legate al caso e alla fortuna, come nel caso del possesso di un contratto di lavoro regolare necessario a non ricadere nell’irregolarità o, addirittura, all’eroismo del “bel gesto”, quando cittadinanza o permesso vengono elargiti al singolo migrante come premio al merito (per salvataggi di persone, blocco di malviventi, rischio o addirittura perdita della propria vita). In questo caso, la gestione discorsiva e pratica dell’immigrazione/integrazione sembra rispondere all’esigenza di generare una inclusione differenziale - e al suo interno differenziata e “in intersezione” con classe, “razza” e genere - dei migranti, in cui possono convivere il più alto livello di convenienza e sfruttamento da parte della società di destinazione con il disinvolto uso politico del tema della “invasione migratoria” e dell’immaginario razzista proprio dei populismi e dei sovranismi.
In sostanza, nel pensiero politico e istituzionale e nell’opinione pubblica la questione dell’immigrazione e dell’integrazione sembra aver subito un doppio movimento. Da una parte, da problematica complessa, multiforme - e persino appassionante - caratterizzata dal contatto tra molteplici componenti di popolazioni straniera ed autoctona, si è ridotta alla rappresentazione e alla gestione emergenziale degli ingressi irregolari via mare e via terra, concentrandosi su una minoranza e contraendo allo stremo la sua capacità di visione. Dall’altra, l’integrazione dei migranti non è più al centro di un dibattito nazionale in quanto progetto politico e socio-culturale della società di accoglienza, ma viene derubricata a questione tecnica dipendente dalla capacità del singolo individuo di corrispondere ai requisiti richiesti, secondo un’ottica di individualizzazione della responsabilità tipicamente neoliberale.
Da fenomeno di grande portata concettuale e politica per il paese, in grado di scuoterlo, dinamizzarlo e farlo progredire, la presenza degli immigrati è ora considerata un “problema” collettivo e personale di protezione e sicurezza, da risolvere attraverso polizia e burocrazia; da tematica pubblica ed epocale che coinvolge tutti i cittadini ed i residenti all’interno dello stesso spazio politico e sociale a “questione privata”, dipendente dal destino e dal merito individuale del migrante nel suo tentativo di agganciarsi ad una società che non gli appartiene, e chissà se mai gli apparterrà.
In questo scenario non sembra più esservi spazio per una reale o dichiarata disponibilità della società di ricezione a farsi cambiare dall’immigrazione, e la popolazione autoctona appare, per quanto allarmata e continuamente aizzata ad opporsi ad una società pluriculturale e meticcia, sostanzialmente non direttamente implicata e quindi deresponsabilizzata rispetto al tema dell’integrazione e dell’inclusione dei migranti.
Leggere criticamente gli effetti di ritorno dell’immigrazione/integrazione
Come è noto, la costante e strumentalizzata attenzione verso chi arriva o è arrivato nel nostro Paese può considerarsi come “un mezzo di distrazione di massa”, nel senso che attraverso un catalizzatore strumentale di risentimento, quale la minaccia dell’immigrazione, essa tende a distogliere lo sguardo dei cittadini dai problemi strutturali e contingenti della società globale e nazionale che generano e alimentano la crisi attuale, deviandone la conflittualità verso gli ultimi e, in definitiva, i meno responsabili.
In questo caso, l’immigrazione non è tanto la causa quanto una delle spie, per quanto distorta ed occultata, dei processi e dei problemi che toccano ed affliggono l’intera popolazione. Ed è perciò anche una preziosa cartina di tornasole attraverso cui leggere lo stato di salute della nostra società tutta. In diverse occasioni si è sottolineato come l’immigrazione sia un “fatto sociale totale”, in quanto fenomeno suscettibile di implicare ed interrogare tutti i diversi aspetti della vita associata del contesto di ricezione (e non solo), e produca un potente “effetto specchio” sulla società di destinazione, riverberandosi su di essa e rivelandone meccanismi sotterranei, logiche implicite, pulsioni profonde e scelte parziali.
I processi di inferiorizzazione dei migranti e la negazione della valenza trasformativa implicata dalla loro presenza hanno impedito per lungo tempo alle società riceventi di cogliere quest’occasione per fare meglio i conti con se stesse, facendosi interrogare a fondo dalle implicazioni profonde dell’immigrazione rispetto al proprio ordinamento giuridico (ad esempio rispetto alla cittadinanza) e la propria organizzazione politico-istituzionale (diritto di voto nazionale e locale, accesso ai concorsi pubblici), rispetto al mondo del lavoro e dei diritti sociali (forte sfruttamento dei lavoratori immigrati, esistenza strutturale di lavoro schiavista e para-schiavista, modelli nazionali[sti] di welfare), agli spazi di partecipazione ed espressione della differenza.
Siamo invece convinti che i processi più sopra abbozzati e più in generale le dinamiche che caratterizzano il mondo dell’immigrazione, se letti criticamente e fuori dal senso comune imperante, possano dirci molto su di noi, sulla nostra società, sullo stato dei nostri impianti giuridici, organizzativi ed etici, sulle nostre vicende politiche e socio-culturali, sul benessere o sul malessere della popolazione. A patto, però, di distogliere uno sguardo prevenuto ed ossessivo dai migranti per rivolgerlo anche verso la “controparte”, di utilizzare la “questione migratoria” per guardarci dentro e riflettere, in un certo senso di usare lo “sguardo migrante” sul nostro mondo come metodo, come chiave interpretativa sulle società “ospitanti”.
Scrivere di “noi” e di “loro”, scrivere di “tutti”
L’obiettivo di questo Forum è proprio quello di stimolare e raccogliere contributi in grado di identificare e descrivere le diverse interfacce ed interazioni contenute all’interno di un concetto allargato di integrazione che ripensi criticamente il distanziamento tra “Noi” e “Loro”, lavorando invece sulle molteplici interconnessioni tra parte ricevente e parte migrante e/o proveniente da un altrove più o meno lontano nel tempo e nello spazio.
I livelli su cui riteniamo che la questione dell’integrazione ci interpelli e le relative domande che proponiamo di esplorare in questa sede sono essenzialmente due: “che cosa il modo in cui ci rappresentiamo e comportiamo con i migranti può dirci su noi stessi?” E poi: “in che modo la condizione del migrante è o può/potrà essere anche la nostra?” Il primo livello lavora sul piano della differenza e focalizza la dialettica noi/altri come l’asse su cui leggere in senso inverso tale dialettica: non come sono e devono essere i migranti ma come noi ci rapportiamo alla diversità, sia dal punto di vista materiale che di rappresentazione; il secondo tematizza il piano della somiglianza e delle comunanze: in che cosa siamo simili ai migranti e cosa condividiamo con loro nel complicato rapporto con il mondo contemporaneo. Più dettagliatamente, intendiamo raccogliere testi in grado di incontrare ed anche incrociare le seguenti due prospettive:
- Come l’integrazione dei migranti ci parli in realtà di noi. Si invita a utilizzare il tema dell’immigrazione/integrazione come una sorta di “liquido di contrasto” con cui leggere il “corpo della nazione”, riflettendo criticamente su leggi, disposizioni, attitudini e comportamenti pubblici e privati verso i migranti come qualcosa che tocca nel profondo il nostro modo di essere, agire, costruire ed immaginare le relazioni, il potere, la giustizia, il presente ed il futuro della nostra società. Addentrarsi in questo gioco di rimandi significa, ad esempio, chiedersi che cosa i processi di disumanizzazione del migrante raccontano rispetto alla cultura solidale e umanistica del nostro paese, di matrice cattolico-sociale come laico-progressista; che approcci e logiche seguano le istituzioni ed il pensiero di stato quando trattano con categorie diverse di cittadini; fino a che punto, all’interno di una più generale precarizzazione delle condizioni di vita e di lavoro, i meccanismi del “mercato” e le logiche estrattive del capitalismo neoliberista si possono spingere nello sfruttamento delle persone; che cosa succede all’immaginario popolare e alla capacità di discernere dell’opinione pubblica di fronte all’immigrazione e più in generale rispetto all’altro da sé, alle diversità, alle vulnerabilità. E poi, ancora e non necessariamente in negativo, come le differenze territoriali del nostro paese contano ed orientano le condizioni e le pratiche di integrazione; se e come la cultura dell’infanzia nel nostro paese abbia orientato approcci e trattamenti verso i minori stranieri e le loro famiglie; quali sono le tensioni e gli umori del mondo solidale, antirazzista, umanitario, e molto altro.
- Come l’integrazione sia una problematica che accomuna molti di noi. Se per “integrazione” consideriamo quella complessa navigazione di ciascun individuo tra sé ed il contesto circostante, e se per “straniero” intendiamo quella umana condizione di esclusione o non appartenenza, la sensazione di non adesione ed estraneità a ciò che succede fuori dal proprio spazio privato, un intero campo di considerazioni, anche molto concrete, si apre. La ripresa massiccia dell’emigrazione dei giovani italiani verso l’estero, le difficoltà di integrazione di una parte importante della popolazione italiana nel mercato del lavoro, le problematiche di convivenza e coesione sociale sui territori, le difficoltà di appartenenza culturale, valoriale e psicologica ad una “comunità” da parte di tanti cittadini, tra cui le giovanissime generazioni con le loro culture giovanili incentrate sui social media, le tecnologie e le relazioni fra pari: si tratta di elementi che costituiscono un terreno comune di esperienza e di condizioni materiali, largamente condiviso con la componente della popolazione migrante, che indica come anche la popolazione italiana risulti per molti versi “straniera a se stessa” ed al mondo sociale e politico circostante e si trovi anch’essa variamente collocata sulla scala delle opportunità, della mobilità sociale, dei diritti materiali, della accettazione sociale, della violenza strutturale e dell’espatrio. Se poi si considera che il saldo migratorio stagnante e quasi negativo dell’Italia è causato non solo dagli impedimenti all’ingresso e alla stabilizzazione, ma anche dall’allontanamento volontario degli immigrati dal nostro paese (che sia dovuto a ritorni in patria o a nuove migrazioni), il fallimento dell’integrazione prende qui una luce ancora più sinistra, bifronte. Quella di una prospettiva di un futuro vuoto generazionale di un paese che vede i giovani espatriare ed i migranti tornare sui propri passi, nel quadro di un declino demografico più generale in cui anche il saldo naturale è negativo.
Tali elementi mostrano chiaramente come siamo tutti diversamente chiamati ad un faticoso e conflittuale accomodamento ad una società altamente imperfetta, diseguale, competitiva ed escludente e come il termine “integrazione” vada prima contestato e decostruito nella sua accezione evoluzionista e discriminatoria (noi ospitanti/loro ospitati) e poi rideclinato e ri-assemblato su nuove coordinate, trasversali ed aperte al divenire.
Più in generale ed in conclusione, si tratta di andare al cuore della questione: liberare le migrazioni dall’idea che costituiscano un cataclisma esterno da cui difenderci per considerarle, invece, come un fenomeno transnazionale che è parte dello scenario contemporaneo e che riguarda in molti modi anche noi come individui, cittadini, consumatori, italiani ed europei. E rappresentare chi è immigrato non come un corpo estraneo/nemico ma come parte del paesaggio sociale e della vita economica delle nostre società, ingrediente strutturale dei nostri spazi di vita, del nostro presente e del nostro futuro.