L’Europa, evoluzione della specie
L’Europa non gode di buona salute, si direbbe. Barcolla, incerta sul da farsi. Non soltanto per il venir meno dei suoi due punti di riferimento post-bellici, americano e sovietico, ma per la ricomparsa dei nazionalismi che l’hanno per tanto tempo intossicata.
Al giorno d’oggi, lo sappiamo, l’imperante globalizzazione favorisce i grandi agglomerati: gli Stati continentali come l’America, la Cina, la Russia, e gli attori transnazionali, come la grande finanza, le reti di comunicazione. Paradossalmente, invece, dopo essersi per tanti versi integrato, il nostro continente si rattrappisce, in un riflesso agorafobico, intimorito dagli inediti grandi spazi che, con la caduta del muro di Berlino, si sono improvvisamente spalancati.
L’allargamento a 28, nella scia di quello, prioritario, operato dall’Alleanza atlantica, rappresentò un imperativo politico: se non l’avesse fatto, l’Unione sarebbe venuta meno alla sua “ragione sociale”, rischiando di compromettere la propria rilevanza storica e funzionale. Col favore delle sopravvenute circostanze, la finalità politica, rimasta sotto traccia dai tempi di Monnet, è pertanto riemersa prepotentemente, a scapito di quell’approfondimento dei processi decisionali interni, che furono allora rinviati a data da destinarsi. Ma che sono tornati ora a proporsi ad una società di nazioni diventata ben più eterogenea rispetto al nucleo originario dei 6 fondatori.
Né abbiamo ancora preso piena coscienza del fatto che, con il dissolversi della contrapposizione bipolare dalla quale era stato condizionato e stimolato, il processo integrativo europeo ha cambiato connotati. Al momento del fallito tentativo di approvazione di una Costituzione comune, dieci anni fa, Giscard d’Estaign ebbe a dire che l’Europa doveva decidersi a stabilire se voleva rimanere uno “spazio”, di natura meramente economica, o diventare una “potenza”, significativa anche militarmente. Una prospettiva, quest’ultima, che riaffiora ancora di tanto in tanto, senza tener conto che essa non fa parte del codice genetico della “Comunità europea”. Nella dichiarata prospettiva di “una Europa sempre più stretta”, piuttosto che di “potenza”, si dovrebbe più propriamente parlare di “potere”, ovverosia di influenza politica. In quella evoluzione da “hard” a “soft” che l’Europa, appunto, è stata la prima ad impersonare; e che le attuali condizioni internazionali dovrebbero suggerire alle stesse presunte “grandi potenze”.
Una condizione che si riflette nella tripartizione dell’Unione fra materie “comunitarizzate”, sottoposte ad una disciplina unificata, come il mercato unico, la moneta unica e le questioni attinenti al commercio, quelle rimaste intergovernative, definite “comuni”, come la politica estera e di sicurezza, e quelle meramente coordinate, come il regime di Schengen e di collaborazione giudiziaria, di più stretta pertinenza nazionale. Una struttura a più livelli, determinata dal fatto che, mentre le materie di ordine economico vanno rigorosamente disciplinate, con un qualche fiscal compact e prefissate percentuali del debito pubblico, quelle di politica estera e di sicurezza che, per la loro eterogeneità e imprevedibilità, non si prestano a pianificazioni preordinate; mentre giustizia e affari interni rimangono l’ultimo ridotto delle prerogative nazionali, poiché incidono sui rispettivi, diversificati, contratti sociali interni.
Una distinzione fisiologica, che viene però trascurata. Con le improvvide confusioni e commistioni concettuali e programmatiche che ne conseguono, a scapito della necessaria raccolta di consenso delle opinioni pubbliche nazionali. Con le accuse di “deficit democratico” serpeggiate per anni, fino ai rigurgiti nazionalisti e sovranisti, genericamente populisti, e le ripercussioni elettorali, che sono ormai sotto gli occhi di tutti. La politica monetaria e quella migratoria, oggetto di tante polemiche, non possono costruirsi che gradatamente, per accumulazione, con il fattivo, convergente contributo di ognuno. Non certo nella sguaiata contrapposizione dei rispettivi risentimenti.
L’euro-scetticismo diffuso ormai persino nei paesi fondatori si dovrebbe semmai considerare come un euro-idealismo deluso da una cattiva comprensione dell’evoluzione della specie europea. All’Europa, con la connivenza di politici che hanno perso la consapevolezza dell’antico progetto, e che non appaiono nemmeno più in grado di narrarne lo svolgimento, le nostre popolazioni hanno così finito man mano coll’imputarle le deficienze politiche e progettuali degli stessi Stati membri. All’integrazione economica perseguita finora, necessariamente tecnocratica, affidata pertanto ai burocrati della Commissione, va oggi affiancato uno slancio di natura politica, intrinsecamente intergovernativo, di competenza del Consiglio. Nel logico, strutturale, intreccio fra il comunitario e l’intergovernativo.
Al giorno d’oggi, non di federalismo spinelliano né dell’Europa delle patrie di gollista memoria si può più trattare, bensì di una incastellatura più articolata, fra i diversi impegni economici, politici e di più generale sicurezza interna. In quell’Europa “a più velocità” (meglio, a intensità diversificate, ad integrazione differenziata) che già la caratterizza. E che meglio corrisponde all’odierna realtà.
Dobbiamo renderci conto, in altre parole, che l’Europa e gli Stati membri si definiscono e si consolidano a vicenda, in un rapporto speculare. Nell’applicazione di quel principio di “sussidiarietà” che da tempo fa parte dell’ acquis comunitario, e delle nuove regole di “cooperazione strutturata rafforzata” che il Trattato di Lisbona ha specificato, ma che spetta agli Stati membri utilizzare.
Tenendo comunque presente che, da sempre, l’Europa, come la Gallia di Giulio Cesare, è divisa in partes tres. Fra i paesi di tradizione “latina”, cattolici, tendenzialmente assistenzialisti, quelli di stampo anglo-sassone, protestanti, eticamente individualisti, e quelli di tradizione ortodossa, dove chiesa e stato si confondono. Con le appendici di quelli della “Mitteleuropa”, riuniti oggi nel “Gruppo di Visegrad”, gelosi della loro appena riconquistata specifica identità, e quelli dell’Europa orientale, dai conflitti “congelati”, sostanzialmente tenuti tuttora in ostaggio da Mosca, dall’Ucraina alla Moldova, all’Armenia, Georgia e Azerbaigian.
In un mondo dove riemergono gli autocrati, da Putin a Erdogan a Xi, allo stesso Trump, è alla “sovranità europea” invocata da Macron che ci dovremmo dedicare, invece di tornare a preoccuparci della salvaguardia di mitiche, astratte, anacronistiche nostre singole sovranità nazionali. Così come non dobbiamo presumere di dover subordinare la proiezione della nostra influenza politica alla previa formulazione di una politica estera che, a differenza, di quella monetaria, non può essere prefissata. Al momento dell’aggressione russa alla Georgia, Sarkozy si avvalse della sua qualità di Presidente di turno dell’Unione nell’impegnarsi in prima persona per contenerne le ripercussioni; anche nella loro qualità di membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, Francia e Regno Unito si sono esposti assieme in Libia e poi in Siria; Francia e Germania continuano a prodigarsi congiuntamente come interlocutori della Russia nella questione ucraina; esempi molteplici di come, a seconda delle circostanze, alcuni Stati europei possano proporsi come avanguardie ed agire per conto dell’intera Unione, anche in assenza di una più coerente configurazione istituzionale della PESC.
Inoltre, pur non aprendo improponibili prospettive di ulteriori integrazioni, la “politica di vicinato” elaborata quindici anni fa da Bruxelles nei confronti del Paesi europei orientali, del Caucaso, dei Balcani occidentali e del Mediterraneo, mette a loro disposizione varie modalità di associazione economica e sociale. Che la rispondenza dei paesi arabi, traumatizzati dalle loro “primavere”, così come quella di Mosca, timorosa della loro possibile contaminazione, non abbiano finora corrisposto alle aspettative e disponibilità europee non inficia la validità dei propositi, racchiusi nella formula del “pensare globalmente e agire localmente”. La credibilità e l’influenza non si conquisteranno che con la perseveranza nel nostro comportamento d’assieme.
La Russia di Putin si rifiuta ostentatamente di prendere in considerazione l’Europa come proprio diretto interlocutore: distanziandosi tanto dagli impegni presi nel 1975 con l’Atto di Helsinki della CSCE, quanto dal “partenariato strategico” stilato con l’UE nel 2003, corredato da quattro “spazi comuni”. Voltandole invece ostentatamente le spalle, nel perseverare nella sua politica del “divide et impera” in Europa, e nel perseguire la “parità strategica” con Washington.
Al cospetto del diffuso riemergere di autoritarismi che credevamo screditati, l’Unione europea rimane l’unico attore internazionale intrinsecamente, costituzionalmente, multilaterale. Che, in tale veste, in assenza di un’America neo-unilateralista, potrebbe pertanto utilmente proporsi come elemento di coagulo dell’ordine internazionale indicato dalla Carta dell’ONU, aggregando coloro che continuano a dipenderne, dal Giappone all’Oceania, all’America Latina, all’Africa. Gli strumenti non le mancano, né la credibilità politica. Soltanto la sua visibilità rimane carente, verso l’esterno quanto all’interno del suo perimetro.
E’ come se la comunità internazionale fosse tornata al punto di partenza dell’immediato dopoguerra. Invece di darle per acquisite o appassite, agli elettori che l’anno prossimo saranno chiamati a votare per il Parlamento europeo, la politica deve tornare a narrare le motivazioni del progetto europeo, non dissimili e altrettanto urgenti quanto lo furono quelle dell’immediato dopoguerra.