A chi l'Africa?
“L’Afrique noire est mal partie”, disse subito un libro del francese René Dumont nel 1962. Dopo l’ondata di autodeterminazioni, fu infatti chiaro che la sua fragilità istituzionale, una conflittualità endemica alimentata dal sottosviluppo sociale ed economico, l’esplosione demografica avrebbero compromesso le prospettive di emancipazione del continente.
Tanto si è detto sulle colpe del colonialismo, dapprima spontaneo, poi organizzato e strutturato alla fine dell’Ottocento; poco su quelle di una decolonizzazione affrettata, radicalizzata per le pressioni della Guerra fredda, sospinta da ideologie “terzomondiste”.
Continente da allora trascurato, sostanzialmente abbandonato a sé stesso, l’Africa si presenta tuttora come un caso di scuola dei rapporti internazionali. Una condizione, la sua, che il fenomeno migratorio di massa ha reso ancor più evidente, in quel che si potrebbe definire come un neo-colonialismo alla rovescia. Mentre, nell’unico continente che sembra consentirne la riedizione, va sviluppandosi una competizione strategica per conquistarvi posizioni di vantaggio economico e politico.
La situazione attuale è frammentata, alquanto illeggibile, per il convergere di una serie di ambizioni concorrenti e contrastanti. L’Occidente se ne fa una colpa, e continua ad attribuirsene la responsabilità. Anni fa, riferendosi all’Italia ma pensando all’intera Europa, l’Ambasciatore Quaroni diceva che “le nostre possibilità di influenza politica sul terzo mondo sono praticamente inesistenti. Possiamo invece contribuire, sul piano concreto, al suo sviluppo economico: questa è una base solida di influenza e di prestigio”. Facevamo affidamento sulla sua reattività e capacità di assorbimento, rivelatesi inconsistenti. Le ripetute astratte invocazioni di un apposito “piano Marshall” appaiono improponibili.
D’altronde l’Europa, con sempre maggiore rigore dai tempi delle Convenzioni di Yaoundé e Lomé, insiste nel pretendere riforme istituzionali e sociali, con progetti puntuali, privi di un’impostazione d’assieme. Nel Sahel, la Francia provvede all’emergenza terroristica, prodigandosi in Niger e Mali; altrove, sottrattasi anche ai suoi impegni di ordine finanziario, confida nella funzione di ‘collante’ della francofonie (la cui direzione è opportunamente appena passata da una canadese a una ruandese). Una più ampia strategia richiederebbe il concorso degli altri europei, dai maggiori pregressi collegamenti con il continente. Il Regno Unito fa affidamento sull’improbabile ripresa dei suoi antichi legami del Commonwealth; l’Italia trova conveniente contrapporsi alla Francia in Libia.
Dal canto loro, Mosca e Pechino, che dei ‘movimenti di liberazione’ erano stati gli alfieri, hanno riscoperto l’Africa, muovendosi senza gli scrupoli europei. I russi insinuandosi qua e là senza un progetto complessivo, politicamente in Libia, militarmente dal Burkina Faso alla Repubblica Centrafricana; i cinesi, più subdolamente, prodigandosi nella costruzione di infrastrutture. Il tutto senza che l’Europa possa competere, né opporvisi economicamente o politicamente, per i condizionamenti che ha sempre applicato al continente africano.
Le aspirazioni russe risalgono più indietro nel tempo. L’Unione Sovietica pensò di trovare utili puntelli nell’Egitto di Nasser, nel Congo di Lumumba, in Angola, in Guinea. Ritrattasi dopo le molte delusioni registrate, Mosca torna oggi alla carica, continuando ad utilizzare i collaudati suoi strumenti di interferenza negli affari interni di paesi fragilizzati. “Siamo pronti a collaborare con tutti i governi che lo desiderino, qualunque sia la loro ideologia o il loro sistema politico; contrariamente agli Stati Uniti [dell’Europa non parla], non imponiamo le nostre regole”, ha detto il Vice Ministro degli Affari esteri Bogdanov, emissario per il Medio Oriente, incaricato ora anche dell’Africa.
La Cina, dal passato predominio continentale va oggi proiettandosi come potenza anche marittima, inalberando il progetto di Belt and Road ben oltre l’ambito dei suoi immediati vicini. Con particolare apparente incisività nel continente africano nel quale, oltre a procurarsi risorse minerarie ed agricole, intende espandere la sua influenza politica e strategica. Costruendovi una “trappola del debito” mediante progetti infrastrutturali, dall’Etiopia all’Angola, finanziati con prestiti a bassi tassi di interesse e l’impiego di proprie maestranze: dalla nuova sede dell’Unione Africana alla ferrovia da Addis Abeba a Gibuti, dove Pechino ha ottenuto la sua prima base navale oltremare. Il tutto alla luce del sole: nell’anno scorso, a Pechino, si sono svolti ben due Forum sino-africani, rispettivamente sulla cooperazione economica e sulla sicurezza militare.
Vi è da chiedersi se i Paesi arabi del Nordafrica, membri dell’Unione Africana (UA), possano proporsi come anello di congiunzione fra il continente e l’Europa, in ambo i sensi. Appare però difficile che il mondo arabo, in altre faccende affaccendato oltre che oberato da un passato per molti versi di impronta coloniale, possa ambire ad una funzione di guida dell’intero continente. Che Boutros Ghali aveva avviato, e Gheddafi, autoproclamandosi leader del continente, aveva riproposto pro domo sua, elargendo (al Sudafrica, alla Costa d’Avorio, al Niger, alla Tanzania, all’Uganda, allo Zambia) prestiti fino a 67 miliardi di dollari, dei quali l’attuale governo di Tripoli tenta ora di ottenere il rimborso. Un importante segnale dell’interessamento arabo è stato peraltro fornito dall’accordo fra Etiopia ed Eritrea, conseguito con la mediazione, anche finanziaria, dell’Arabia saudita e degli Emirati. Nell’anno in corso, la presidenza dell’UA spetta all’Egitto. Nella sua agenda figurano tre principali progetti: la normalizzazione della situazione in Libia, la lotta al terrorismo, le migrazioni. Questioni di particolare interesse italiano, che giustificherebbero pertanto il concorso della stessa Unione Europea. Sarebbe infatti prevista l’esplorazione di un “partenariato strategico” con l’UE.
Non che, dal canto loro, anche nell’ambito di una organizzazione continentale in corso di consolidamento, gli africani non si stiano coordinando. Oltre alle iniziative sub-regionali di ordine prevalentemente economico e commerciale, continua lo sviluppo di predisposizioni per la prevenzione dei conflitti e la ricostruzione post-conflitto. Anche se croniche appaiono ancora alcune situazioni di crisi, non manca qualche segnale confortante: il “G5 del Sahel”, comprendente Burkina Faso, Mali, Mauritania, Niger e Ciad, ha messo assieme una forza militare congiunta di 4000 uomini per contrastare il terrorismo nella fascia sahariana. La configurazione politica ed economica del continente andrebbe però ristrutturata con formule multilaterali che promuovano e disciplinino il coinvolgimento, la compartecipazione internazionale.
Anne-Marie Slaughter, già a capo dell’unità di pianificazione del Dipartimento di Stato nell’amministrazione Obama, aveva ipotizzato la costituzione di un rapporto transatlantico allargato all’emisfero meridionale che, rinnegando implicitamente la Dottrina Monroe, coinvolgesse anche l’America Latina e l’Africa in una strategia di ordine politico ed economico condivisa. L’avvento di Trump può aver rinviato l’innesco di un tale progetto.
Ad evitare che quel continente, troppo a lungo trascurato, diventi il luogo di confronto fra le autoproclamatesi grandi potenze, è l’Europa, che grande potenza non è più né aspira a tornare ad essere, che dovrebbe potervisi dedicare.