I Balcani Occidentali richiedono un grande impegno dell’Europa e dell’Italia

Lodovico Sonego
Già Presidente della Delegazione parlamentare italiana presso la Central European Initiative

Oltre il desiderio e la retorica

Il CeSPI propone un aggiornamento sui Balcani Occidentali con un documento che, premesse varie affermazioni, sollecita il dibattito con alcune domande. Fra le affermazioni vi è: “Una piena appartenenza della Serbia all’Unione europea potrà evitare il rischio che Belgrado sia attratta in altre orbite”, e poi “E’ l’inclusione europea che sollecita Serbia e Kosovo a normalizzare le loro relazioni.”. Le asserzioni citate vanno discusse.

L’europeismo dei paesi fondatori, a volte collocato in un’area che sta tra desiderio e retorica, ritiene che l’ingresso nelle istituzioni comunitarie sia di per sé un fattore stabilizzante e di adesione ai valori liberaldemocratici dell’Occidente. Gli anni più recenti e le esperienze di Polonia, Ungheria, Cechia hanno svelato che per i longevi governi eletti in quei paesi l’Ue è certamente una scelta di campo occidentale, ma non liberaldemocratica. Ancor più recentemente si è realizzato che vi sono paesi - i Frugali, Olanda in primis - che considerano certamente l’adesione all’Unione come una scelta di campo occidentale, liberaldemocratica, di utile partecipazione al più grande mercato unico ma assai meno come condivisione di un comune progetto propriamente politico. Oggi, in altri termini, ciò che davvero accomuna senza riserve i ventisette dell’Ue è l’opzione occidentale e del mercato unico; per unione politica e liberaldemocrazia ci sono geometrie e sfumature variabili.

È tuttora vero che The Balkans produce more history than they can consume, ossia che quella regione d’Europa è in grado di esportare consistenti criticità nell’intero continente ed è per questo, volendo invertire la bilancia commerciale della politica, che si cerca di indurre i Balcani ad importare l’opzione occidentale e la liberaldemocrazia tramite il processo di adesione all’Ue. Serbia e Bosnia Erzegovina, in misura minore il Kosovo per ragioni che vedremo, sono il banco di prova di questo programma di integrazione.

Serbia

Dal 1° marzo 2012 il Paese gode dello status di candidato all’Ue e dei 35 capitoli dell’istruttoria 2 sono stati provvisoriamente chiusi, 17 sono aperti e in corso d’esame; un processo da incoraggiare e sostenere. Molto difficile fare previsioni sul timing dell’intera istruttoria perché dipende dalla celerità delle riforme domestiche. Vi è tuttavia un’ulteriore questione, non formalizzata ma non per questo meno cogente. L’accesso all’Ue di tutti i paesi dell’ex blocco sovietico e della disciolta Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia è sempre stato preceduto dalla membership della NATO, l’unica eccezione è la Bulgaria che compie le due adesioni lo stesso giorno. L’ingresso in Europa è sempre preceduto cioè da un’opzione occidentale – transatlantica - netta e formalizzata ed è per questa ragione che oggi l’Unione appare divisa su molti aspetti ma non sull’appartenenza al blocco geostrategico di riferimento.

La Serbia non entra nella NATO perché non lo vogliono i cittadini e nemmeno le élite, la memoria dei bombardamenti su Belgrado comandati dal quartier generale di Mons ha del resto il suo peso, ma vi è di più; per varie ragioni che non vengono qui nemmeno richiamate il sentiment diffuso non è tale da consentire la scelta occidentale e la collocazione del Paese è pertanto quella di una discutibile neutralità, non certamente la neutralità dell’Austria di cui non è dubitabile la collocazione occidentale. Belgrado ha firmato accordi di collaborazione con la NATO ma la cooperazione militare con Mosca è molto più operativa e si traduce in forniture di alcuni MIG 29, vari carri T72 ed altro ancora. Gli incontri fra i due capi di stato e i due governi sono frequenti. Da un punto di vista formale accesso all’UE e adesione alla NATO sono del tutto disaccoppiati, ma quel decoupling è destinato ad esaurirsi man mano che l’Unione procede sulla strada di una politica estera comune che per forza di cose implica anche un’unica politica della sicurezza: e il momento della convergenza tra vecchi e nuovi requisiti di adesione potrebbe essere meno lontano di quanto si pensi. Lo scorso 17 giugno il Consiglio dell’Unione Europea ha varato ambiziose Conclusions on Security and Defence: lecito prevedere che in assenza della Gran Bretagna quel programma potrà camminare con meno ostacoli e se paesi come gli ex Patto di Varsavia o Slovenia e Croazia lo criticheranno lo faranno semmai chiedendo maggiore assertività. La questione occidentale come argomento geostrategico assumerà un ruolo crescente nella vicenda serba e balcanica.

Bosnia ed Erzegovina

Dayton 1995 ha miracolosamente stabilizzato l’intera area dei Balcani occidentali dopo la stagione dei genocidi e della guerra guerreggiata. In realtà quell’intesa fu l’esito del massiccio ricorso NATO alla forza delle armi che consentì, in particolare, la complessa composizione dei rapporti nazionali e istituzionali che organizzano l’odierna statualità della Bosnia ed Erzegovina: due entità, la Federazione di Bosnia ed Erzegovina, la Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina e poi il Distretto di Brčko. Il miracolo Dayton si sta progressivamente esaurendo perché la complicata ingegneria istituzionale del Paese, frutto dell’accordo, impedisce qualsiasi evoluzione politica, economica, sociale, istituzionale. L’ordinamento costituzionale è tale, per fare solo un esempio, da permettere alla Republika Serpska di impedire l’adesione della BIH alla NATO invocando certe competenze demaniali che stanno in capo esclusivamente a ciascuna delle due entità. In queste condizioni sarà proibitivo dare corso alle riforme per entrare nell’UE il cui accesso è stato chiesto il 15 febbraio 2016.

La situazione non può che deteriorarsi. La Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina che raccoglie la quasi totalità dei serbi del Paese è rilevante per il ruolo interno ma merita attenzione pure per l’influenza che esercita su Belgrado; la Serbia e il suo Capo di stato Aleksandar Vučić sono i tutori della confinante entità serba ma volendo e dovendo svolgere questa funzione - anche quando il leader di quell’entità Milorad Dodik esaspera la contesa - finiscono per essere prigionieri della politica di Banja Luka per evitare di apparire troppo poco nazionalisti. Ne esce un legame abbastanza inestricabile tra le dinamiche bosniaco erzegovesi e quelle serbe, è una prigionia che indebolisce Vučić che qualche anno fa veniva percepito come un conservatore evoluzionista.

Dunque, una parte della vicenda serba si declina in Bosnia Erzegovina e mette in luce che anche per questa ragione i due grandi nodi dei Balcani occidentali stanno a Belgrado e Sarajevo. Lungimiranza suggerisce che il secondo vada affrontato con un Dayton-2 che riscriva la costituzione della Bosnia Erzegovina; si tratta naturalmente di un notevole grattacapo che tuttavia è meno problematico del lento ma esiziale deterioramento che si è menzionato. Una nuova Dayton richiede un consistente ruolo politico dell’Europa ma, come nel 1995, l’imprescindibile ruolo politico, e non solo, degli Stati Uniti che confermano anche in questo modo la loro rilevanza nella regione. Di questo dirò qualcosa al punto successivo.

Le diplomazie

Lo scorso 10 luglio la questione kosovara è stata oggetto di un video vertice fra il Presidente francese Emmanuel Macron, la Cancelliera Angela Merkel, il Presidente serbo Aleksandar Vučić e il Primo ministro kosovaro Avdullah Hoti in supplenza del Presidente Hashim Thaci, chiamato in causa dalla Corte Penale Internazionale dell’Aia per crimini di guerra (l’azione della Corte dell’Aia è la ragione che ha causato il rinvio sine die del vertice convocato per il 27 giugno scorso a Washington dall’Inviato Speciale Presidenziale Richard Grenell. Vi avrebbero dovuto partecipare Aleksandar Vučić e Hashim Thaci. Il secondo ha rinunciato al viaggio proprio a causa dell’inchiesta penale internazionale). La conversazione non ha prodotto esiti se non un programma di ulteriori incontri che si svolgeranno con il patrocinio dell’alto rappresentante UE Josep Borrell e la collaborazione del suo inviato speciale Miroslov Lajcak. Viste le complessità l’esito era previsto, ma giova notare che il summit segna un utile rilancio del dialogo. Necessaria invece qualche presa d’atto di contesto.

In primo luogo il tandem franco tedesco assume la guida del processo di normalizzazione ed integrazione dei Balcani. Ciò accade, in maniera apparentemente paradossale, poco dopo la “gaffe” con cui nel 2019 la Francia impresse una brusca frenata al processo di adesione, suscitando nell’Europa del Sud Est un sentimento antifrancese e disillusione verso l’Europa. In realtà, alla luce delle considerazioni espresse al punto 2, lo stop francese assume il significato del realismo e della prudenza a cui ha poi fatto seguito, e significativamente proprio su proposta francese, un nuovo approccio della Commissione europea, che il 5 febbraio 2020 lancia una politica per Rafforzare il processo di adesione - Una prospettiva europea credibile per i Balcani occidentali. Il tandem franco tedesco non esclude il Processo di Berlino ma certamente lo ridimensiona con conseguenze che riguardano anche la funzione politica dell’Italia, che pure nei Balcani ha una presenza economica importante a cominciare dal ruolo dei propri gruppi bancari, di Terna, di varie imprese manifatturiere.

In altri termini si pone la questione di un profilo italiano che, ferma restando la condivisibile impostazione di fondo, sia più assertiva; ciò richiede alla guida politica del MAECI un’autorevolezza che negli anni è stata intermittente. Cancelleria, MAECI e Bundestag hanno utilmente riscoperto la crucialità dei Balcani nel 2014 dopo anni di negligenza motivata dalla presunzione che Dayton avesse risolto l’argomento; Berlino ha ripreso l’impegno ma a volte con conoscenza e comprensione discutibili. È accaduto per esempio che Cancelleria ed entrambe le ali del Bundestag appoggiassero con un filo di ingenuità la proposta di Aleksandar Vučić che puntava ad un’area di libero scambio tra Albania e i paesi dell’ex Jugoslavia non ancora Ue. Uno Zollverein propedeutico all’Ue. Ipotesi del tutto propagandistica se solo si pensa che implicava il riconoscimento serbo del Kosovo oppure l’esclusione di questi dall’accordo con vari risvolti fra cui un problema in Albania. L’Austria, al contrario, esprime da sempre competenza e comprensione per le dinamiche balcaniche nonché uno sforzo organizzato per la propria presenza economica nella regione. L’elezione di Donald Trump con la ritirata degli Stati Uniti da molti scenari esteri ha fatto temere il disimpegno di Washington dal Sud Est europeo. In realtà il deep state di Pentagono e Dipartimento di Stato, nonché entrambi gli schieramenti del Congresso, hanno da subito confermato alle rappresentanze diplomatiche americane dell’area la continuità dell’impegno USA. A rafforzare l’ingaggio vi è stata la nomina due special envoy: l’Inviato Speciale Presidenziale Richard Grenell e il rappresentante Speciale per I Balcani occidentali Matthew Palmer. Entrambi molto attivi.

Vale la pena di aggiungere che nell’affollata varietà dei format diplomatici presenti nell’area vi è il 16+1 che include fra i sedici tutti i paesi del Sud Est Europa accanto agli stati membri Ue dell’ex blocco sovietico, e dove il +1 è Xi Jinping in persona, nonché la Three Seas Initiative nata su impulso di Croazia e Polonia e che ora include Austria, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia. La TSI è nata per iniziativa dei due paesi europei ma è ben presto stata molto influenzata dagli Stati Uniti: il Partito Repubblicano e il Presidente Donald Trump vi attribuiscono una considerevole importanza. L’Unione Europea non apprezza, la Germania nemmeno, e a ragione. Il Presidente della Commissione Romano Prodi completò con successo e sulla base di un percorso accelerato l’adesione di tutta la regione europea centro-orientale; l’allargamento, effettivamente assai rapido, fu poi criticato sotto più aspetti e il rimprovero riemerge anche oggi quando con riferimento ai newcomers si discute dello stato di diritto. La vera molla che spinse Prodi a quell’accelerazione fu il desiderio tutto politico di includere quei paesi di neonata democrazia nel contesto istituzionale, economico, di mercato regolamentato, valoriale dell’Unione Europea per evitare che diventassero una vasta regione del continente inclusa nello schema di un liberismo senza freni di tipo statunitense e dominato direttamente dalla leadership di Washington. Una grande regione europea che agisce da succursale USA. La TSI a guida americana si ripropone oggi quell’obiettivo in chiave anti Ue ed antirussa trovando orecchie attente per entrambi gli scopi.

NATO

Torniamo brevemente sulla questione dell’opzione occidentale discussa al punto 2. La NATO non è solo un’intesa difensiva, è una coalizione politico-militare in cui l’aspetto politico del binomio manifesta il rilievo della scelta di campo occidentale. In questa luce l’adesione all’Alleanza di Albania (2009), Montenegro (2017) e Macedonia del Nord (2020) costituisce una facilitazione per l’ingresso dei tre paesi nell’Ue. Comprensibile l’irritazione di Mosca per la scelta di Podgorica e soprattutto di Skopje.

Kosovo

Viene solitamente trascurato il fatto che il Paese sta faticosamente transitando dalla fase bellica a quella di una difficile pacificazione democratica grazie all’indispensabile supporto stabilizzante della lunga presenza militare NATO, la Kosovo Force. Il contingente attuale è composto da truppe di ventisette paesi per un totale di 3.500 effettivi, le due aliquote più numerose sono quelle americana (660) e italiana (550). Dal settembre 2013 il comando della KFOR è stabilmente italiano dopo la fase dei comandi a rotazione. Le autorità kosovare stanno da tempo cercando di dare vita ad una propria piccola forza armata ma la cosa suscita vari contrasti, fra cui la scontata contrarietà di Belgrado, sottolineando ulteriormente la funzione del contingente multinazionale che gestisce fra l’altro l’importante emittente radiofonica Radio KFOR, che trasmette in diretta h24 fornendo intrattenimento ma anche preziosa informazione slegata dalle fazioni serba e skipetara.

L’Islam

Il conflitto serbo bosgnacco degli anni Novanta provoca un mutamento dell’identità dell’Islam dei Balcani Occidentali; si assiste infatti all’introduzione di elementi di radicalismo che contrastano con una lunga tradizione di secolarizzazione diffusa. Il fenomeno riguarda, con modalità e toni differenti, Bosnia Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord e anche Albania. L’argomento è motivo dell’interesse del Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza e dei suoi rapporti al Parlamento. Fra i vari aspetti che connotano la questione va richiamato il ruolo degli investimenti esteri effettuati nella regione da soggetti che rimandano al mondo islamico: spesso ONG ma anche direttamente schemi finanziari conducibili ad organizzazioni statali. L’intento degli investimenti è duplice: promuovere il mutamento della natura di un antico Islam europeo, ciò che accade soprattutto su sollecitazione del Wahhabismo, ed esercitare un ruolo geopolitico dentro l’Europa. In tale contesto si assiste anche ad una competizione tra l’Islam influenzato da Ryad e quello riconducibile ad Ankara. Volendo sintetizzare si può dire che nell’area vi è un eccesso di investimenti islamici e che il fenomeno è oggetto di attenzione da più parti. Dal canto loro le autorità degli Stati interessati replicano senza nascondere l’approccio mercantile dicendo che per ciò che non ottengono da Bruxelles possono sempre rivolgersi alla Turchia, al Golfo, alla Cina; un altro argomento di riflessione per l’Ue.