Cooperazioni regionali rafforzate e sussidiarietà applicata: rigenerare l’Unione europea stabilizzando il processo d’allargamento ai Balcani Occidentali
L’Europa, essendo il più grande importatore ed esportatore del mondo, è il garante del benessere internazionale. Conseguentemente rimane insieme alla sua appendice mediterranea il terreno di competizione principale tra le grandi potenze che qui si incontrano e si scontrano. Questo terreno di competizione, in seguito alla prima guerra mondiale che ne ha sminuzzato i sistemi statali, ha un ventre molle: l’Europa centrale e balcanica. Venuti meno i cuscinetti geopolitici asburgico ed ottomano che per secoli avevano attutito le frizioni tra le pretese delle grandi potenze, si è creato nell’Europa centrale un vuoto strategico i cui effetti si protraggono fino ai nostri giorni. Una miriade di Stati medio-piccoli tra il mar Egeo ed il mar Baltico non è certamente garanzia di stabilità e governabilità per un’area geografica caratterizzata da forti tensioni storiche, politiche, culturali e religiose. Tale instabilità nel cuore del sistema nordatlantico, potenzialmente incrementabile a causa dell’abbondante presenza nei Balcani di conflitti congelati dell’era post Guerra Fredda, rappresenta da decenni la cartina di tornasole del vuoto strategico dell’Unione Europea e al contempo, cosa ancor più grave, di quello italiano.
Pur essendo generalmente il primo o il secondo partner commerciale, Roma fino ad oggi non ha mai saputo sfruttare la sua leva economica per fare sistema. Nonostante la cospicua presenza militare nelle missioni di pace, una presenza industriale talvolta d’eccellenza e uno scambio commerciale di primaria importanza la percezione dell’Italia nella regione è quella di un attore con serie difficoltà di promozione sistemica, ovvero di un Paese privo di strategia nazionale. Le ragioni di queste difficoltà sono molteplici e probabilmente da rinvenirsi nell’assenza di meccanismi di coordinamento politico, nella mancanza di un’intelligence economica strutturata, nelle logiche d’internazionalizzazione spesso estemporanee e nella scarsa attitudine della diplomazia ad interagire e fondere settori diversi quali quello militare, non governativo e commerciale.
Nelle relazioni verso l’Est, l’Italia è andata col tempo appiattendosi sulle posizioni dell’Europa nella speranza che queste fossero anche di interesse generale per il nostro Paese. Un atteggiamento supino che ha avuto come unico risultato quello di avvantaggiare le capitali capaci di delineare una politica estera maggiormente coerente. Del vuoto ha approfittato nei decenni, a livello europeo, proprio il Paese cui l’Italia ha sempre desiderato porsi - più a parole che nei fatti- da contrappeso, la Germania.
I Balcani sono un luogo complesso in cui le tradizioni statali spesso si basano su narrative mitologiche create nel XIX secolo per legittimare nuove classi politiche ovvero nuove pretese nazionali in una regione del pianeta nella quale s’intrecciano inestricabilmente popoli, etnie, religioni, culture e soprattutto interessi. Gli Stati balcanici più che avere un concetto di sé non di rado costruiscono la propria autostima sul rapporto conflittuale con l’avversario, spesso il vicino, ma soprattutto nutrono rispetto nei confronti del portatore di potere reale, chiunque esso sia.
L’Unione Europea in tal senso è accolta quale garanzia di benessere economico ma molto di rado, per non dire mai, quale progetto politico compiuto. La sua storica ancillarità allo sviluppo dell’area Nordatlantica la riduce ad essere portatore di stabilità socioeconomica, un moltiplicatore di benessere e, più concretamente, il primo partner commerciale. Quel che ancor di più influisce sulle percezioni però è il fatto che nell’interscambio sia la Germania ad avere il ruolo preminente tra i partner di Bruxelles. Infatti, nonostante talvolta possa anche primeggiare con l’Italia, Berlino è ritenuta portatrice di una visione geoeconomica concreta, ovvero di una strategia strutturata garanzia d’ipotetica continuità qualora in futuro l’Unione Europea non dovesse più riuscire più a gestire il proprio sviluppo. È all’interno di tale scenario che il Processo di Berlino, esternazione dell’azione diplomatica tedesca in cui l’Italia è riuscita ancora una volta ad inserirsi inseguendo gli eventi anziché creandoli, è riuscito col tempo ad assorbire tutti i fora regionali di coordinazione intergovernativa.
Da tale premessa inoltre si evince anche il motivo per cui l’apparente attrazione nei confronti dell’Ue, nonostante gli errori da questa commessi, non venga meno.
Palesare, da parte dell’ex presidente Juncker, che l’Ue non prevedeva alcuna possibilità di allargamento sotto la sua presidenza, intervenire a gamba tesa negli equilibri politici macedoni sostenendo un governo palesemente corrotto affinché cedesse parte della sovranità nazionale a favore di una Grecia pretendente compensi per le umiliazioni subite durante la crisi finanziaria d’inizio decennio, oppure mostrare palese inadeguatezza a gestire le crisi migratorie sono momenti che, pur nella loro gravità, non hanno fiaccato la volontà delle popolazioni balcaniche d’aderire all’Unione ma le hanno comunque, ulteriormente, disilluse sulla portata politicamente salvifica del progetto comune. Il tutto poi ha favorito l’ascesa di attori politici capaci di liderismo esasperato, populismo e finta dialettica per mascherare un ormai esteso livello di state capture che a sua volta favorisce la retorica anti allargamento di determinate capitali del continente.
Ammessa e non concessa la sopravvivenza di uno spazio germanico autoreferenziale all’eventuale collasso del progetto comune, la questione della germanizzazione dei Balcani ovvero, più idealisticamente, della mancata europeizzazione di quest’ultimi è uno dei punti chiave per comprendere l’attuale situazione di stallo.
La Francia ha in passato frenato l’apertura dei negoziati con Macedonia del Nord ed Albania oltre che per l’effettivo ed inaccettabile livello di corruzione da cui i due Paesi non riescono ad uscire – in parte anche a causa delle politiche europee – soprattutto per bloccare l’inarrestabile avanzata della sfera d’influenza tedesca. Al contempo gli Stati Uniti hanno deciso di inserirsi nel gioco con l’Iniziativa dei Tre Mari per meglio connettere l’Europa settentrionale con i Balcani dal punto di vista delle infrastrutture, della sicurezza energetica e quindi della necessaria collaborazione intergovernativa. Un progetto, quello americano, che nel suo piccolo ricalca le motivazioni storiche della Nato: tenere la Russia fuori, gli Stati Uniti dentro e la Germania sotto.
L’allargamento verso i Balcani è un processo complesso e rischioso. Esso racchiude in sé non poche similitudini col processo di balcanizzazione dell’Impero austroungarico durante il XIX secolo. Non ultima la possibilità d’implosione. Non a caso il Ministro degli Esteri serbo Ivica Dačić è solito domandarsi se l’Ue esisterà ancora il giorno in cui il suo Paese sarà invitato a farne parte.
Tuttavia, un’Unione Europea in forte crisi d’identità e alla ricerca di un rivisto modello istituzionale potrebbe trovare proprio qui nuova vitalità delineando modelli che prendano spunto dalle idee paneuropee di Coudenhove Kalergi, padre del progetto europeo, e di Winston Churchill che al primo si inspirò tanto per il famoso discorso di Zurigo del 1946 sul futuro dell’Europa, quanto nella ricerca di una soluzione federale per l’Europa balcanica e centrale post seconda guerra mondiale. Ma se il controllo sovietico della regione ha per decenni congelato la questione della problematica parcellizzazione della regione, essa è oggi, dopo un ulteriore ondata di smembramento degli Stati preesistenti alla fine della Guerra Fredda, ancor più attuale.
Senza dover mettere mano ai Trattati potrebbe essere giunto il momento storico nel quale favorire la creazione di due regioni a cooperazione rafforzata che ricalchino i modelli del Benelux o della Scandinava. Due strutture tra loro non escludenti: una tra i Paesi dell’Europa centrale legati da secoli di vita comune e una tra le capitali dei Balcani in modo da forzarne la cooperazione e lo sviluppo reciproco facendo però attenzione a non dar loro la sensazione umiliante di volerle nuovamente legare ad un passato storicamente fallito ed improponibile. In tal senso ad esempio è stata interpretata la proposta sviluppatasi all’interno del Processo di Berlino – proposta interlocutoria nelle more del processo d’allargamento - della creazione di uno Spazio Economico Regionale al fine di dar vita, a trent’anni dalla scomparsa della Jugoslavia, ad un mercato regionale capace di stimolare il commercio intraregionale.
Un’Ue che riuscisse a proporre due modelli sovranazionali e al contempo infra-europei di coordinazione favorirebbe finalmente, non solo con vuoti proclami, la creazione di un vero modello di sussidiarietà continentale capace di rafforzare le cooperazioni regionali, ma soprattutto creerebbe nelle stanze di Bruxelles un sano bilanciamento di interessi tra le diverse macroaree composte da Stati medio-piccoli e Stati più grandi che circoscriverebbe lo strapotere di alcuni capitali. Uno strapotere che fa spesso leva proprio sulla mancanza di coesione dei membri più piccoli e che crea malcontenti capaci d’intaccare la stabilità dell’architettura comune.
Sostenere la creazione di cooperazioni rafforzate a Est di Trieste rafforzerebbe lo sviluppo regionale, gli investimenti infrastrutturali, la coordinazione di bilancio intergovernativa, migliorerebbe l’efficacia dei fondi comunitari, renderebbe le élite politiche più responsabili, le popolazioni maggiormente coinvolte e gli Stati più stabili, mentre l’Unione ritroverebbe un nuovo modello di sviluppo capace di sollevarla dalle eccessive responsabilità di cui si è gravata negli ultimi anni e a cui non può rispondere a causa dell’incompletezza della propria struttura politica.
Questa soluzione, con costi nulli e a trattati immutati, regalerebbe un modello alternativo di sviluppo ad un’Unione incapace fino ad oggi di riformarsi e avrebbe il vantaggio di soddisfare contemporaneamente sia l’interesse comunitario che quello italiano. Col venir meno del vuoto strategico europeo, l’Italia potrebbe recuperare il tempo perso nella regione balcanica sostenendo un’iniziativa diplomatica capace di ristabilire nuovi e più sani equilibri geopolitici e rinvigorendo la propria presenza economica. In un contesto di profondo riassetto del mercato globale caratterizzato sempre più dal fenomeno del back o near shoring ovvero di ritorno in Patria o nelle regioni limitrofe delle delocalizzazioni al fine di garantire una maggiore resilienza e flessibilità delle catene produttive, l’Italia potrebbe trovare nel suo vicinato orientale la regione maggiormente rispondente alle esigenze della classe imprenditoriale nazionale.
Valorizzare in maniera strategica il proprio vicinato orientale per riallocare parte delle attività produttive oggi dislocate prevalentemente in Asia avrebbe per l’Italia effetti moltiplicatori dal punto di vista geopolitico, reinserendoci in maniera assai più proattiva nella ridefinizione dell’ordine regionale e, conseguentemente, continentale. In tal modo il nostro sistema-Pese dimostrerebbe la capacità di coadiuvare la stabilizzazione politica di una regione socialmente frammentata e permetterebbe, come effettuato in passato dalla Germania, di reimpostare il mercato regionale più marcatamente a favore dei propri prodotti nel momento stesso in cui lo si sostiene nella sua capacità d’acquisto. Un approccio che oltretutto favorirebbe il contenimento del pressante problema emigratorio che sta falcidiando molte delle realtà nazionali regionali.
In un contesto di riassetto cooperativo dell’Europa centrale e Balcanica basato sull’implementazione della sussidiarietà istituzionale infraeuropea, l’Italia partirebbe avvantaggiata qualora riuscisse a dare vita ad una visione strategica della propria presenza nel vicinato orientale potendo contare sulla benevolenza generale nei confronti della propria presenza e su bilance commerciali altamente equilibrate.